“Allora pensai che tutta la vita sarebbe trascorsa alla ricerca del senso di ciò che era accaduto. E il suo ricordo mi riempie di silenzio” (Laurentius Eremita)

Sono stato suo discepolo dagli anni della mia giovinezza, studente al Liceo Berchet di Milano: Giussani era l’insegnante di Religione nella mia classe, sezione D. Non potevo quindi sottrarmi a un invito…



Già, ma come parlarne? Come parlare di un’esperienza così densa? In che modo prendere una matassa che aggroviglia in modo indistricabile la lucidità di un pensiero teologico raffinato con l’istanza di una trasmissione bruciante? In che modo restituire la presa intellettuale e insieme l’attrattiva di questo paradosso? Il cui ricordo ancora “mi riempie di silenzio”.



Suscitava la stima mia e di gran parte dei miei compagni, ma che cosa trasformava i suoi contenuti, a volte brillanti, a volte meno, in qualcosa che faceva comunque presa, che faceva effetto, un effetto sempre particolare sui suoi uditori. Memorabili certe discussioni in corridoio con il docente di Filosofia della porta accanto che, raffinato e incallito laicista, sosteneva di non esser sicuro di nulla e vantava tale atteggiamento come il massimo della criticità. Di contro alla posizione supposta acritica del suo interlocutore. Quella volta la discussione si protrasse ben oltre la campanella. Giussani conduceva abilmente il suo interlocutore sulla via di insostenibili paradossi, peraltro inoppugnabili, senza dunque sottrarsi alla critica agnostica tipica di quel momento, i tormentati anni Sessanta. Poco importa qui la vittoria dialettica che fece capitolare l’ingenuo interlocutore, il professore, costretto ad ammettere – in un implacabile crescendo – di non poter essere certo dell’esistenza degli Stati Uniti…



Tuttavia si trattava di una simpatica e astuta dialettica? Erano dei contenuti “nuovi” nel loro porsi in alternativa al discorso corrente? In quegli anni, a loro modo ruggenti, le posizioni scettiche e problematiche avevano miglior fortuna che oggi, in una logica che si rivelava travolgente. Già, ma perché travolgeva? Travolgeva il pensare, certo, ma quel che veniva toccato non era piuttosto l’essere? E per quale misterioso potere?

Incontrare l’Incontro

Questo punto già definisce un tema cruciale, divenuto ben noto e classico nella doxa del movimento che ne nacque: il tema dell’incontro. Nell’esperienza di quei momenti, divisa tra il bel mondo berchettiano e la novità inquietante del ‘discorso’ che quello strano prete apportava, colpiva – li ripenso uno ad uno – l’offerta di un luogo ‘familiare’, l’invito ad entrare e scoprire e respirare una patria antica, un luogo non immaginato prima eppure ri-scoperto come proprio, familiare originariamente, eppure in realtà anche radicalmente non proprio, inappropriabile, Altro, luogo di una possibile sorpresa.

Una casa, da cui si potevano estrarre cose nuove e cose antiche: fu questo il “raggio”, nella mitica via Statuto, sede di GS, Gioventù Studentesca. Che c’era all’ordine del giorno? Era una riunione politica? Sì, nel senso più forte e autentico, per cui la polis vive dell’esperienza e della disponibilità a comunicarsela, a metterla al lavoro, ad elaborarla. Esperienza per me decisiva, fulminante nel sentirmi trasportato sul terreno di parole e di fattualità vitali, incontestabilmente originarie, vere, che evocavano qualcosa di sorgivo. E non obiettabile.

Non era questione di brillanti dialettiche, di un pensare con più lucidità e strumenti: era interrogarsi sull’ingiustificato della propria esistenza e incamminarsi per trovare una risposta singolare, ma non da soli. A Varigotti in 300, e poi in molti di più… Ai miei occhi si apriva una realtà nuova, eccedente ogni mia capacità di critica. Lui, il don Giuss, chiamava questo luogo Chiesa. Nome che mi pareva strano.

Quello che mi interrogava di questo luogo fu un effetto che mi ha accompagnato e attraversato fino a ora: ridefinire la mia capacità di giudizio. Uscito dalla chiesetta di Varigotti, da un caro compagno della mia quotidianità liceale mi sentii dire: Basta! Non siamo più nostri”. Sono passati da allora sessant’anni e l’esperienza mia e del mio amico è rimasta agganciata a quell’incontro, in quella sorta di legame abissale che il Giuss si ostinava a chiamare “comunione”.

Un luogo ridefinisce il giudizio

Quante le occasioni per mettere alla prova il sorgere di questo “nuovo”… La realtà culturale italiana e quella ecclesiale andavano incontro a uno strano fermento, legato a sommovimenti e ridefinizioni di rapporti di potere entro la polis. L’istanza di liberazione propria del messaggio cristiano si fuse con questioni legate alle necessità di sottrarsi al predominio del capitalismo e alle sue leggi. Il Concilio ecumenico sanciva esperienze e metodi da molti sperimentati nei luoghi proposti dal Giuss. Un modo nuovo e più libero di interrogarsi sulle esperienze culturali, familiari e morali si stava diffondendo, ma in questi fermenti lo scollamento rispetto alla tradizione sembrava l’elemento più forte.

Il fascino di quegli anni stava nell’affinare le coordinate dell’esperienza, a partire da cui un giudizio diviene possibile. Quali i punti di ragione per cui questo vaglio portava non al formarsi di un ennesimo gruppo (ricordiamo la logica dei gruppuscoli, non legata al numero), ma a una rettifica dei modi attraverso cui sostenere l’efficacia di quella parola, come sopra dicevo. I momenti che vennero definiti di “parola chiara”, nella povertà apparente di una presenza indicavano, contra spem, un cammino e un discorso. Chi era in quella ristretta cerchia sa a quale desiderio è dovuta questa modalità di lavoro e il coniugarsi stesso di “comunione” e “liberazione”.

Un pensiero di riconoscenza all’amico non da molto scomparso – Pier Alberto Bertazzi, il Pier – ci mostra la pregnanza anche operativa del “piccolo gregge”, e la sua capacità di annuncio, intorno al carattere irriducibile del termine “comunione”, non così frequentato allora se non in ambiti strettamente teologici che furono di sostegno alla incidenza giussaniana e a chi quotidianamente la sosteneva sui banchi dell’università: da Guardini a Danielou, da De Lubac a Balthasar, grandi teologi e uomini di Chiesa posero, in quel momento decisivo del sapere stesso e non solo della teologia, il sapere teologico come effetto dell’incontro con Cristo: un momento poco studiato della Chiesa milanese, alla scuola della grande teologia sviluppatasi dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta.

Da dove proveniva e che segno costituiva il carattere irriducibile di tale termine, “comunione”, che allora – in più di un senso – sembrava quasi stravagante? Esso nascondeva e ospitava la chiave di volta, censurata spesso anche nel sapere cristiano, di un’impossibile scommessa quanto al bene ‘comune’. Che cosa consente che ci sia un accomunarsi che non volga rapidamente nella “ferocia” dantesca di questa nostra “aiuola” che ci rende così spesso e letteralmente insopportabili gli uni agli altri?

Solo nel non sottrarsi a questa sfida dell’humus umano, nel non sottrarsi alla stra-ordinarietà di questo ‘impossibile’, ed elaborando – con pazienza – risposte non ideologiche, come con gli interlocutori del Berchet, il metodo dell’incontro e della persona di Cristo come origine attiva di una cultura sorprendente poteva rendere non dominante il luogo di produzione dell’ideologia come “riflesso rovesciato di una verità”.

L’ossimoro, comunione/liberazione, era il modo di esserci nella cultura pseudo-libertaria di quegli anni, nella forma di una provocazione. A ben vedere, il linguaggio – articolato pur se diretto – di Giussani, la sua parola in quanto faceva effetto, in quanto fa cambiare dei parametri essenziali dell’esistenza, si sprigionava dal non indietreggiare davanti a questa scommessa.

Non c’è dunque visione del mondo, ma annuncio e sorpresa rinnovata di un’origine nuova e incommensurabile delle esperienze e quindi dei giudizi. La “creatura nuova”, descritta nelle trattazioni dei teologi, si pone nel suo sorgere come esperienza, esperienza di una conversione pro-vocante, nella sua natura e nel suo metodo: un radicale sovvertimento delle modalità stesse dei giudizi.

In questa accentuazione, che ne era della tranquillizzante autonomia delle realtà terrene? Se da un lato tale autonomia era incontestabile, e perfino tautologica, l’esperienza – anche intellettuale e morale – del cristianesimo poteva darsi come mera “visione del mondo”, confrontabile con altre? Abito troppo stretto per Giussani, e anche fuorviante metodologicamente rispetto alle effettive dinamiche allora in gioco.

L’idea di Weltanschauung, di una “visione del mondo” diffusa nella riflessione filosofica e sociologica, come modo di una giusta convivenza di concezioni diverse di vita e di cultura, va in effetti a confliggere con l’idea di luogo che prima sottolineavo: “luogo” è qualcosa di altro ordine. Il luogo ospita “visioni del mondo”, una come un’altra, ma non vi coincide, poiché le investe e le trasforma, nella loro origine e nel loro linguaggio, nella scommessa cui puntano: il luogo ospita e interroga, non si fa contenuto tra altri, perché riguarda il nesso tra esperienza e soggetto, riguarda le vie –originali e singolari – che quel soggetto ha preso per l’espressione della sua lode, della sua contemplazione, in quanto toccato dalla presenza-esperienza del Cristo.

In questo accento sul luogo piuttosto che su contenuti, controllabili e riducibili a formule, credo si colga anche la presa così particolare e trascinante del discorso giussaniano, imprendibile a livello di ritualità prefatte e a saperi preconfezionati. Tutto si gioca sull’impegno del soggetto con la sua parola, sopportandone e patendone la menzogna.

Per questa sorta di trasformazione dall’interno, il termine avanzato è “conversione”, tipicamente allora sottolineato, insieme all’idea di “comunione come metodo”: quello che cambia la natura e l’identità del soggetto in rapporto all’esperienza, che non è interessante dominare come sorgente di una prassi autonoma, ma si affida alla via rischiosa, inquietante, eppure radicalmente libera, di non doversi più dare un’identità e una rappresentazione di sé, sulla base del suo ‘stato di famiglia’,  per così dire in metafora.  L’Incontro, Emmaus o via di Damasco, o via Commenda o Varigotti, è sempre l’incontro di un luogo come presenza sorgiva, più radicale e “familiare” di sé a se medesimo.

Come dicevo, per Giussani è questo che trascina il soggetto umano in un’esperienza nuova e inaudita, perché fa mutare nozioni come proprietà, giudizio, intelligenza, sapere: in cui l’essere fatto, prodotto, generato (il catechismo della Chiesa cttolica dice “figlio”) diventa la forma determinante, svelando l’origine ‘comunitaria’ della ‘propria’ azione. La posta in gioco di questa esperienza era per me l’accedere ad una rinnovata coscienza di sé, a una sorta di evolversi retroattivo, se così posso dire in modo paradossale, nel senso di una memoria attiva, insondabile e travolgente, non di un perfezionarsi, per quanto nobile.

Ecco perché sottolineo l’accento posto sul luogo, come incontro, come impatto di e con un accadere di fatti, persone, legami, nell’idea di una socialità nuova.

(1-continua)

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