Tra i valori fondanti dell’Europa e dell’Occidente ci sono quelli della ricerca costante della libertà e del miglioramento dello stile di vita, individuale e nella sfera collettiva della persona. Perché invece oggi di fronte alla crisi della partecipazione politica ed economica, ai conflitti che si registrano in Ucraina e in Medio Oriente, alla messa in discussione dei valori tradizionali che da sempre hanno cementato l’Occidente, l’Europa rischia di essere meno libera?



È un dato di fatto che purtroppo nelle nostre società, e negli ultimi decenni in una misura sempre maggiore, la libertà si realizza solo ed unicamente in una sfera consumista, in un contesto di primato feroce dell’individualismo e delle sue conseguenze psicologiche e sociali che si ripercuotono anche sulla qualità della vita collettiva. L’impegno per la cosa pubblica è sentito solo da chi è impegnato direttamente nella cura dello Stato, mentre il resto della popolazione segue distrattamente le vicende politiche tra una pausa e l’altra dei tempi di lavoro e quelli altrettanto fondamentali del consumo ai vari livelli.



Quella libertà degli antichi di cui parlava Benjamin Constant, vale a dire la possibilità di avere voce in capitolo nelle questioni riguardanti la cura dello Stato, è oggi in teoria garantita ma scarsamente esercitata, con la conseguenza della degenerazione possibile anche della libertà dei moderni, ovvero di quella sfera privata così cara ai partigiani del liberalismo; sarebbe però opportuno ricordare che ogni diritto o libertà politica individuale scaturisce e si esercita sempre in virtù di quelle ottenute a partire dalla dialettica sociale e dalla tensione politica collettiva.

Se Max Weber agli inizi del Novecento criticava la società dei funzionari, che, terminata la loro funzione quotidiana, non avevano più ragione di sussistere, erano de-funti, oggi accanto alla funzione strumentale del funzionario, per cui ogni essere umano esercita le sue attività lavorative ed economiche nell’orario del suo lavoro, vi è quella del consumo e della cura individualistica di sé negli spazi sempre più erosi che la società individualistica ci fornisce. Perlomeno finché si consuma, si esiste e si è liberi di realizzare proprio quel consumo. Ma al di fuori degli spazi consumistici si registra poco altro, anzi ecco che aumenta l’abisso, se non quei pochi momenti che l’apparato tecnico-scientifico burocratico oggi imperante ci fornisce.



Per questo la civiltà occidentale è una civiltà che, snaturando se stessa, rischia di avvicinarsi al tramonto. Senza contare che il consumo di oggi non è nemmeno più quello di venti o trent’anni fa, quando di certo era più robusto e vivace, sorretto da un retroterra di risorse e da una domanda non diventata stagnante come quella di oggi, a causa di conflitti e di evidenti ragioni geopolitiche e demografiche che riguardano il nostro rapporto con i Paesi del cosiddetto terzo mondo; si può parlare a questo proposito anche di un consumismo spento, che però rappresenta il cardine del nostro modo attuale di vivere.

Perché allora personaggi importanti come Mario Draghi parlano (in un discorso rivolto qualche settimana fa al parlamento europeo) del rischio che l’Europa possa essere meno libera? Evidentemente siamo in preda a una degenerazione formidabile dell’individualismo che mette in difficoltà un tentativo di salvaguardia o di recupero dei valori tradizionali dell’Occidente. Non è facile oggi, in mezzo a tutto il quadro geopolitico e sociale che vediamo, pensare a un risveglio spirituale di società ormai appiattite sul cinismo e in preda di uno spento consumismo. La società attuale corre il rischio di appiattirsi su un principio di realtà per cui tutto quello che avviene ha ragione di essere giustificato, sancendo il primato del fatalismo, del cinismo e della rassegnazione di fronte ad ogni circostanza della vita pratica e collettiva. Qualche filosofo come Peter Sloterdjik parla del cinismo diventato atteggiamento cardine del nostro tempo. Tramontate le spinte volte a trasformare le nostre società in un sistema migliore, appiattiti e messi da parte i sogni, cosa rimane se non un cinismo immerso in un mare di disillusione?

Ma il fatalismo e il cinismo non sono altro che il tradimento dei fondamenti della civiltà occidentale, la quale evidentemente ha raggiunto il suo apice, la sua acme grazie a un certo grado di idealismo portato a trasformare la datità della vita politica e sociale in una diversità di situazioni più evolute. L’Occidente è stato il cammino di lotta per l’affermazione di valori contro gli autoritarismi e contro le ingiustizie. Oggi però sembra che questo atteggiamento sia al tramonto. Di fronte all’imperante disimpegno politico, per cui il cittadino disorientato cerca con mancato successo corpi intermedi vari, associazioni, partiti e simili a cui confessare i problemi del proprio tempo,  con la speranza che tali problemi siano compresi e risolti dalla loro carica negativa, ebbene di fronte a questa deriva abbiamo barattato l’impegno politico di ieri, di incessante trasformazione sociale verso il meglio con un po’ di comfort destinato, senza il motore della forza ideale che tiene in piedi la virtù di una società, spronandola costantemente a dare il meglio di sé stessa, a esaurirsi come il fuoco d’inverno alimentato da una fiamma morente. Abbiamo barattato miopemente l’interesse per la cosa pubblica per una zona di comfort più o meno estesa destinata però, dopo un certo tempo, ad andare verso il suo inevitabile esaurimento, perché ogni comfort deriva in maniera significativa dalle condizioni politiche e sociali in cui siamo posti, e in ultima analisi dalle risorse che lo tengono in piedi.

Un certo grado di utopismo politico è necessario affinché la società possa costantemente avere uno sprone verso il suo automiglioramento e costituisce anche antidoto verso il disfacimento delle strutture collettive e istituzionali che permettono il convivere armonico dei cittadini. Da quando abbiamo dimenticato il sogno di perseguire una società ideale? Il fatalismo di oggi sarà qualità della vita peggiore di domani, come già i fatti del nostro tempo a tutti i livelli testimoniano nei fatti di cronaca e nell’inasprimento della situazione politica internazionale.

Al contrario, i decisori politici dovrebbero impegnarsi maggiormente per far sviluppare una socialità degna di tal nome, non appiattita solo sugli spazi del consumo ma aperta alle tematiche e al tocco virtuoso della cultura. Perché la socialità, elemento cardine della dimensione umana come ben Aristotele aveva già messo in evidenza ai tempi dell’Atene classica, impreziosita dallo strumento cardine della cultura, è uno dei pochi elementi che dia sostegno e consistenza alla persona, affinché si possa perlomeno pensare a una possibile rinascita sociale e anche spirituale del nostro tempo.

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