La Storia, molto spesso, rischia di essere una narrazione come direbbe Shakespeare “piena di rumore e di furia, priva di significato”, dove cadaveri squartati si accatastano uno sull’altro in un osceno monumento al Male. E tale potrebbe diventare la narrazione dei santi e beati trucidati dalla corona britannica nel XVI e XVII secolo; eppure così non è nel volume Inghilterra di sangue: i Quaranta Martiri Inglesi e Gallesi da Enrico VIII a Carlo II di Giuliana Vittoria Fantuz (Ares, 2022).



Un libro diverso da quelli che la pubblicistica produce attualmente: innanzitutto per il rigore delle ricerche e per i contributi forniti da mons. Robert Byrne, vescovo di Hexham e Newcastle, dal patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia, da Maurizio Giammusso (Aiuto alla Chiesa che soffre) e da Philip Whitmore, già rettore del Venerabile Collegio inglese di Roma. La “diversità” e originalità del libro risiede, tuttavia, nel suo oggetto: vite di santi passate da un’esistenza normale al martirio subìto nei modi più spaventosi e non per opera di chissà quali popolazioni selvagge, ma della civilissima Inghilterra in tempi moderni.



Sappiamo bene tutti come la Storia sia lenta nel suo processo di civilizzazione degli uomini. Se solo pensiamo che la normanna Teresa Martin, ossia santa Teresa del Bambin Gesù e del Sacro Volto discendeva, con ottime probabilità, da lontanissimi avi vichinghi che praticavano il supplizio dell’Aquila insanguinata ci si chiede per quale miracolo si sia potuta avere una simile trasformazione. E così oggi riusciamo con difficoltà a credere che il mondo “british” e tutta la raffinatezza e la pompa magna della corona britannica attuale sia lontana parente di un malfattore come Enrico VIII e delle sue figlie Maria la Sanguinaria e l’ancor più sanguinaria Elisabetta I.



È noto che nel XVI secolo le esecuzioni di condanne a morte erano improntate alla crudeltà più orrorifica, da quella di fra Dolcino a quelle dell’inquisizione spagnola, a quelle degli eretici in Germania e in Francia. In Inghilterra l’esecuzione dei traditori avveniva tramite la mezza impiccagione, che lasciava in vita il condannato in tempo per essere messo alla ruota con dislocamento delle giunture ed essere poi squartato vivo, decapitato e fatto a pezzi. Ma nel caso dei nostri quaranta martiri quale era la colpa? Quella di essere sacerdoti cattolici o di averli aiutati e protetti.

Le storie di questi martiri non parlano mai di violenza o di cospirazione, solo di carità e la prima carità è far incontrare Cristo. Poiché anche gli anglicani erano e sono cristiani sorge spontanea la domanda: “Dov’è il problema? Quando l’annuncio di Cristo e l’incontro con Lui tramite la Sua Chiesa diventa destabilizzante dell’ordine costituito?”. La risposta sta in quella zona di confine, oggetto di dissidi e polemiche da secoli, tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio; e quella zona di confine preesiste al cristianesimo stesso, se Antigone proclama davanti al tiranno Creonte: “Non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte ed incrollabili degli dei. Infatti, queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero”.

Una questione quanto mai attuale oggi, quando le leggi (o i progetti di legge) dello Stato pretendono di oltrepassare la realtà dell’esistenza come, per esempio, nel caso della maternità surrogata. Il cristiano come si pone davanti a una società che lo isola prima e che lo perseguita poi per le sue idee non conformi? Nel caso dei martiri inglesi (ma la stessa cosa si può dire nel caso delle vittime della repressione cattolica, come Jan Hus o Girolamo da Praga, per i quali si ricordano i “mea culpa” di san Giovanni Paolo II) si trattava di ridurre la fede in Cristo risorto a sistema politico. Perché è inconcepibile come uomini miti ma coraggiosi all’estremo come il gesuita padre Edmund Campion, siano morti in modo così orribilmente sadico.

Ci si può, ci si deve chiedere, che differenza vi sia tra i martiri cattolici e quelli protestanti. Dai loro “acta martyrum” si può desumere (ma sarebbe utile una ricerca storica approfondita e comparata) che gli uni e gli altri abbiano affrontato il martirio in nome della verità con, in più, per i cattolici, l’amore e il perdono per i propri persecutori. In molti casi coloro che guardavano l’esecuzione cercarono di affrettare la morte del condannato tirandolo per i piedi al momento dell’impiccagione almeno per fargli perdere conoscenza. Possiamo vedere la splendida figura di Margaret Clitherow, condannata à peine forte et dure dire ai propri giudici: “Se questa sentenza è conforme alla vostra coscienza, prego Dio che ve ne riservi una migliore davanti al suo tribunale”; possiamo ascoltare padre John Boste dire: “Prego Dio perché la mia morte parli ai vostri cuori e dica quel che avrei voluto dirvi”; rivedere padre Henry Walpole che bacia la forca, la scala e la corda perché erano gli strumenti che lo portavano in Cielo; John Rigby che perdona tutti coloro che hanno concorso alla sua morte; padre Thomas Garnet che dice: “Chi obbedisce al suo sovrano non per questo deve rinunciare alla sua fede. Il re ha decretato che ogni sacerdote che ritorni in Inghilterra sia ucciso. Io sono tornato e volontariamente mi assoggetto a essere condannato a morte; così darò il corpo a Cesare e la mia anima a Dio”.

Essere perseguitati e continuare ad amare incessantemente la patria che li opprime; è da questo amore costante e non corrisposto che sono nati geni come Edward Elgar o Tolkien. Il cattolicesimo britannico ci insegna precisamente questo: essere sconfitti in apparenza perché diventi più chiaro che Cristo ha vinto il mondo.

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