Si assiste da tempo ad un forte interesse per la tematica delle emozioni dopo un lungo periodo di razionalismo e di esaltazione di un soggetto “distaccato” che tende ad oggettivare tutto, anche se stesso. Le emozioni hanno certo una dimensione affettiva, ma nell’uomo non sono staccate dalla razionalità e hanno a che fare con la nostra identità, con chi sentiamo di essere. Fra le emozioni ve ne sono alcune che possiamo chiamare negative. Si tratta di emozioni che fanno male a sé e agli altri sotto il profilo psicologico e morale come l’invidia, la gelosia e il risentimento. Sull’invidia, in particolare, è stato pubblicato recentemente un esauriente volume di Sara Protasi, The Philosophy of Envy (Cambridge University Press 2021).



Ma che cos’è l’invidia? Secondo l’autrice si tratta di una “risposta emotiva avversa nei riguardi di una inferiorità o svantaggio percepiti di fronte a un altro simile a proposito di un ambito rilevante per se stessi, che motiva a superare tale inferiorità o svantaggio”. Nell’invidia sono presenti tre fattori: l’invidioso, ciò per cui s’invidia, l’invidiato. Presupposto dell’invidia, come già notava Aristotele, è, in primo luogo, una certa uguaglianza o somiglianza fra le persone. È stato osservato che la tendenza all’omologazione sociale nella prospettiva egualitaria che è propria delle democrazie può spingere gli individui verso posizioni cariche di invidia. Nei regimi aristocratici l’invidia non era generalizzata, ma si manifestava solo nell’ambito delle proprie classi di appartenenza. In secondo luogo nell’invidia c’è sempre una sorta di confronto. Essa, quindi, è comparativa. Proprio a motivo di ciò l’invidia è qualcosa che non viene confessato, quasi che fosse il peggior crimine al mondo. 



Sara Protasi distingue quattro tipi d’invidia: a seconda del fatto che si punti maggiormente su chi s’invidia o sull’oggetto dell’invidia, ovvero si tenda a sollevarsi sul piano degli invidiati o ad abbassare l’oggetto o la persona stessa dell’altro. L’invidia può diventare negativa e distruggere sé e l’altro, ma può anche essere positiva e diventare emulazione: quando l’oggetto invidiato è buono, si punta soprattutto ad esso e si crede di poterlo attingere, ovvero si ama se stessi in maniera equilibrata. Addirittura l’emulazione in certi casi può essere virtuosa, in quanto permette di maturare umanamente imitando esemplari virtuosi. 



L’invidia negativa, invece, può essere inerte, aggressiva (attenta più all’invidiato che al bene invidiato), dispettosa (si tende ad eliminare l’oggetto perché si pensa di non farcela a raggiungere colui che s’invidia). 

Il risentimento si può definire come una “peculiare forma di invidia”. Come questa anch’esso ha origine da un sentimento d’impotenza, che però si è stabilizzato all’interno della persona. Nel risentimento c’è più senso d’impotenza che nell’invidia. Esso insorge quando sappiamo che in linea di principio potremmo avere accesso ai beni che l’altro possiede e che desideriamo, ma abbiamo la coscienza che non potremmo effettivamente conseguirli. Si cova così un rancore che si trascina nel tempo finendo per intossicare la persona. 

Il germe del risentimento ci impedisce di dar sfogo ai nostri sentimenti e di porli in atto. A differenza dell’invidia il risentimento porta a negare i valori di coloro che si ammirano, a  svalutare i valori che non si riescono a vivere. Dal momento che non ho la forza di vivere certi valori che penso di primo acchito validi, ovvero che ammiro negli altri, devo negarli come valori. Questo può accadere nei riguardi dei valori legati alla potenza esaltando così i valori socialisti di eguaglianza (Nietzsche) oppure nei riguardi di quelli cristiani di bontà, umiltà. Si pensi ad espressioni come: avrà avuto il suo interesse a comportarsi così bene.

Nel  caso del risentimento come in quello dell’invidia (che può anche diventare virtuosa) l’unica vera e radicale risposta è il retto amore di sé. Non si tratta di quell’amore istintivo per cui tendo normalmente (se non sono malato) a preservare la mia vita, ma di qualcosa di più. Si tratta di amare sé nel giusto modo, non troppo con il rischio della superbia e dell’orgoglio, non troppo poco con quello della depressione e di una forma di suscettibilità oggi diffusa. 

Ma come ci si educa ad amare se stessi in modo equilibrato? In realtà l’amore di sé “uno non se lo può dare”. Essendo gli uomini esseri dipendenti e relazionali, l’amore di sé richiede il rapporto con altri, con un essere adeguato a me, ovvero dotato di un’apertura alla totalità, l’essere cioè amati da una persona. Ma a volte l’amore di altri come noi non basta perché è mancato in certe fasi importanti della vita, perché l’altro può morire o deludere, in generale perché l’apertura del desiderio come quella della ragione è infinita. Allora è possibile in certi contesti religiosi come quello cristiano riconoscere l’amore da parte di Dio: Dio ci ha amati per primo (1Gv. 4, 19). Ma, come nel caso dell’amore da parte degli altri, questa è eventualmente un’esperienza, una grazia che si può chiedere e ricevere, non l’esito di un mero sforzo di volontà.

In ogni caso l’invidia negativa o il risentimento possono essere superati o almeno ridimensionati solo da esperienze forti di gratuità, da un’attenzione agli eventi, alla bontà delle cose e delle persone, di certi rapporti, dal bene che in quanto tale si diffonde (bonum est diffusivum sui).