Nella poesia di Ivan Crico, nato a Gorizia nel 1968 ma cresciuto nel paese materno di Pieris, a pochi chilometri da Monfalcone, nella punta estrema del Nordest d’Italia, si impongono subito due elementi di straordinario vigore: il paesaggio e la lingua, tra loro intimamente connessi.

In un documento autobiografico del 2007, il poeta goriziano rievoca il fascino dei paesaggi della sua infanzia: il verde intenso delle acque dell’Isonzo, il biancore silenzioso delle distese infinite dei greti, dove spuntavano i fiori gialli dei topinambur, nell’azzurro sfolgorante del cielo. Erano “i colori della mia anima”, avvertiva il poeta. Egli sa, come Goethe, che “nei riflessi colorati noi possediamo la vita”.



L’uomo percorre solitario, infinite volte, lo stesso cammino, attento alle sue impercettibili variazioni, “nell’oro dei tramonti come nelle nevi dei salici”, alla ricerca di “un varco verso l’invisibile”, “con gli occhi perduti in un’infinità buia e meravigliosa che non voleva, o non poteva ancora spiegarmi il perché del mio essere lì a contemplarla”. Niente poteva distogliere lo sguardo del giovane da quel quadro incantato.



Il dolore dell’incomprensione altrui, così acuto nella sensibilità giovanile, lo spinge a comporre, a dipingere, a scrivere alla ricerca di “un fraterno cuore”, direbbe Montale. Ma in quale lingua raccontare questo incanto misterioso? Non poteva essere l’italiano, benché amato, ma sentito profondamente estraneo, dato che tra le cose e i nomi che le esprimevano si “apriva un abisso incolmabile”. Crico usava, e tuttora usa, per la comunicazione quotidiana, il dialetto del suo paese, il bisiàc, un “sermo rusticus”, ancora oggi parlato, sia pure da pochissime persone, nei comuni del monfalconese, imparentato più con il veneto che con il friulano, mescidato con termini ladini, sloveni, tedeschi e francesi.



Ma il bisiàc era la lingua della vergogna e dello stigma culturale, bandito a scuola. Occorreva un precedente di prestigio che restituisse dignità a quella lingua. Questo libro fu Poesie a Casarsa di Pasolini. “Da quel momento, la mia vita cambiò”, afferma deciso Crico. Le cose riacquistano, come per miracolo, i loro antichi nomi. Era infatti una lingua tutta cose, sorgiva, una lingua della realtà, fuori da qualsiasi astrazione concettuale, espressione di contadini e di emarginati.

Eppure, quella di Crico è una lingua che si muove tra due mondi, il bisiaco e l’italiano, e che rimanda ad un altro ancora, come sottolinea Giorgio Agamben, pensatore a cui Crico deve molto, nella prefazione a L’antro siel del mondo (L’altro cielo del mondo), LietoColle 2019, che raccoglie tutta la produzione fino al 2018. Nel cosiddetto “dialetto” – ma grandi poeti come Noventa e Marin negavano che si potesse parlare di poesia dialettale – il rimando all’italiano è continuo: non solo perché il poeta offre un’autotraduzione delle sue poesie, ma anche perché si tratta di un “bilinguismo originario” (Agamben), caratteristico in fondo di qualsiasi poeta, il quale tende ad un’altra, misteriosa lingua, al di là di ogni lingua conosciuta, per cui “scrivere è sempre tradurre”, in una tensione polare che costituisce la lingua della poesia, segno di “un oscuro canto al di là di tutte le parole e di tutti i nomi”, scrive ancora Agamben.

Nella mia pratica di lettura, mi accade di avvicinare il testo di Crico in italiano; poi di leggere l’originale, per poi tornare di nuovo alla lingua nazionale, in un movimento di ripresa circolare. La poesia di frontiera di Crico si muove nelle intermittenze della luce, sul margine tra il detto e il non detto, come dice la splendida A òro (Sul margine): “Qui / ad un incrocio del tutto con il niente, nuda / comunione di terre e luce. Sul margine / del campo / dove l’attesa arde / calma il fieno fresco del tuo sguardo”.

Diamo altri, folgoranti esempi di questa tensione creatrice. Il primo è Solità del ciaro (Solitudine della luce), tratto dalla raccolta Le vis’ ciade del scur (Le panie del buio): “Solità del ciaro / che ‘l se distira gualìu / sui paredi de le cànbare / de domènega // e te par de bòt / che ‘l vivar intrego, / cun dut quel che ‘l xe sta / e che l’à ‘ncora / de nassir, drento de èlo / al sie serà”. (Solitudine della luce / che si distende uniforme / sulle pareti delle camere / la domenica // e sembra quasi / che il vivere intero, / con tutto ciò che è stato / e che ancora deve / accadere, in essa / sia racchiuso)

Cogliamo il secondo dalla raccolta Signi de muda (Segni della metamorfosi), dal titolo Midài (Soglie). “Spiandor de fior / che de cuntinevo / i se despica // naltri semo // par doventar fruti / de n’antro / vivar” (Splendore di fiori / che eternamente / si staccano // noi / siamo // per diventare frutti / di un’altra / vita). Poesia di un’essenzialità degna di un haiku giapponese.

Ancora, nella poesia De cossa te ‘npesesto, (A cosa pensi), tratta dalla stessa raccolta, il poeta si rivolge a un amore lontano: “drento sto rispìr / terno che ‘l xe ‘l vivar / ta oni àtin che ‘l nasse murindo / par murìr a la fin nassìndo” (dentro questo respiro / eterno / che è il vivere / in ogni attimo che nasce morendo / per morire nascendo).

Tra gli scrittori che giustamente Crico ama non può mancare Cristina Campo, per la quale “la poesia è una forma di attenzione al mondo”, come scrive nel memorabile Gli imperdonabili. Crico, nella prefazione alla sua raccolta Màitani (Segnali di mare) ripete le sue parole: “Una spirituale devozione al mistero di ciò che esiste è stile per virtù propria, come dimostra l’ammirabile linguaggio, oggi in via d’estinzione, dei contadini”; per questo è importante prestare ad ogni singola cosa del visibile e dell’invisibile, “l’identica misura di attenzione, così come l’entomologo s’industria a esprimere con precisione l’inesprimibile azzurro di un’ala di farfalla”.

Nelle poesie de Con la stessa voce, Crico offre ai suoi lettori versioni poetiche da Kavafis, Holderlin, Rumi, Goethe: ma Crico è anche autore di una traduzione in bisiaco del Cantico dei Cantici e di una in italiano di un’opera teatrale del Pasolini friulano, I Turcs del Friuli. Il senso del miracolo e dell’oltre abita i versi di Crico, anche qui in diretta discendenza pasoliniana. Nelle conversazioni con il critico inglese Jon Halliday, Pasolini affermava: “viviamo in una cultura che non crede più ai miracoli”. Occorre quindi “cercare di trasmettere quel senso del miracoloso che ciascuno di noi prova guardando l’aurora, ad esempio. Non succede nulla, il sole sorge, gli alberi sono illuminati dal sole. Per noi, forse, è questo ciò che va chiamato miracolo”.

Le riflessioni di Pasolini sono per Crico delle soglie, illuminate da una luce potentissima, per accedere ad un diverso e più profondo confronto con la realtà.

L’ultima sezione de L’antro siel del mondo si intitola Seràie (Reti) e presenta un’impennata civile della poesia di Crico. Gli spunti vengono offerti dalla tragica cronaca di questi ultimi anni, dal crollo delle Torri Gemelle alla guerra in Siria, ma visti da un’angolazione particolare: il sacrificio personale, quasi sempre nascosto o ignorato, di chi ha offerto la propria vita per un ideale, o per salvare altre vite umane. Una personale Spoon River, dove sono le stesse vittime a prendere voce e a narrare la loro storia, a cui noi affidiamo la nostra superficiale attenzione di utenti storditi da comunicazioni veloci e globali. Ecco comparire davanti a noi il dramma della prostituzione, rivissuta dalle parole di Elena: “Non so se ghe credo a Dio, / De segur non ghe credo ai omini, / Ma instes cuntinevo sercar, no go mai / molà” (Non so se credo a Dio / Di certo non più agli uomini. / Ma continuo a cercare, non ho mai / smesso); o della violenza sessuale subita da una giovane africana in Erabor, aggrappata a quel “punto di luce” del bambino che vibra il lei; o in Khaled al-Asaad, l’anziano archeologo, rapito e ucciso da un gruppo jihadista mentre difendeva il sito di Palmira, di cui era stato “amante fedele”; o il giovane calciatore ivoriano Augustin, immigrato in Italia e affogato sui lidi ravennati, dopo aver salvato due bambini, che racconta “questa strana vita // da attaccante, morto per fare il difensore”; ed ancora Orio e Ronald, scomparsi nel rogo delle Torri Gemelle: “Il cielo si era scaraventato tra quelle stanze rioccupandole con il suo intoccato cobalto, un cielo / irreversibile / che si è sostituito, per sempre, a noi stessi”.

Nella poesia che dà il titolo al libro, Ivan Crico ripete la sua fiducia in un altro azzurro, in un altro cielo del mondo: “Note in fra le rame de novenbàr. / De nui grandoni polsadi de stornei / ta ‘l negro fis gatiun dei sipressi. / Ta sto blu fondo ‘l me oc’ al se sfanta, / de sto blu fondo xe fata l’anema // che senpre de manco mea de ti, / de duti la xe; e quel che al iera / brùsia pa ‘l siél ancoi al se fa midàl / de n’antro biau, un biau se se pol / ‘ncora più fondo. L’antro siél del mondo” (Notte tra i rami di novembre. / Di immense nubi quietate di storni / nel nero fitto intrico dei cipressi. / In questo blu profondo il mio occhio si perde, / di questo blu profondo è fatta l’anima // che sempre di meno mia di te, / di tutti diventa; e ciò che era / confine per il cielo oggi si fa soglia / di un altro azzurro, un azzurro / ancora più profondo. L’altro cielo del mondo).

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