Ci si ricorda spesso degli studiosi per le opere che li hanno consacrati al prestigio accademico e al senso comune e per i lavori che ad esse seguono, circondati dalla medesima aurea di autorevolezza. È naturale che questo approccio offra letture a una dimensione, dove dello studioso emerge un quadro statico, invariante, omologo a se stesso. Capita ancor più spesso al giurista la cui opera, in un certo periodo storico, si imponga a un’attenzione più larga rispetto a quella della comunità scientifica: se ne ricordano gli aspetti caratterizzanti, ma non sempre c’è voglia di ripercorrere appieno le orme dell’autore fin dai primi (e spesso già significativi) passi.



Non sfugge a queste regole non scritte del recepimento collettivo Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), studioso insigne del diritto ecclesiastico e canonico. Eppure, gli anni giovanili di Jemolo, in questo come in altri casi, stanno a dimostrare l’inizio di un percorso che poi conduce alla disincantata e rigorosa maturità senile e che si rivela prezioso per comprendere l’Italia di tutto il primo quarto del Novecento. Esattamente cent’anni dopo, gli scritti storici, giuridici e di impegno culturale di Jemolo ci rendono fotografie che poco hanno di compiaciuto e retrospettivo e che, invece, ci raccontano l’Italia di ieri, non privandola di riflessi, anche interessanti, per quella di oggi. 



Jemolo completa nel 1911 gli studi di giurisprudenza a Torino, la “grande Torino” di inizio secolo che per rinomanza è pari al contemporaneo fermento culturale viennese (di impronta più direttamente legalista) e parigino (dove, invece, si impongono la speculazione filosofica e i nuovi stili letterari e figurativi). Il mondo universitario torinese ha gli ingenui entusiasmi della prima modernizzazione unitaria. Lì si afferma il magistero economico di Einaudi e hanno corso gli studi sociali di Mosca; lì si formano alla militanza politica il socialista marxista Gramsci e il progressista liberale Gobetti – persino lo scrittore Cesare Pavese risente del medesimo clima, affiancandosene pur con autonomia e indole singolarmente non convenzionale e libertaria. Nel primo Novecento, Torino è un caleidoscopio di sensibilità che contiene le contraddizioni del suo tempo: conservazione ed evoluzione, sperimentazione e tradizione, riformismo e massimalismo, liberalismo e socialismo. 



Jemolo coltiva per parentela materna, ancora, rapporti affettivi con la piccola comunità ebraica dell’entroterra piemontese e dedica sempre un ricordo mite e sincero a quel mondo, fatto di piccole ritualità e anche della trasmissione di una cultura millenaria non limitata alle liturgie, ma esplicativa di un milieu etico e comportamentale di notevoli suggestioni anche per gli scettici, i laici, i convertiti. 

La produzione giovanile di Jemolo, sin dalla tesi di laurea sull’amministrazione della proprietà ecclesiastica nel contesto della legislazione eversiva sardo-piemontese (sotto la guida del già noto Francesco Ruffini), presenta, ancorché non sistematica, una propensione alla comparazione, perché il tema dei beni ecclesiastici, così peculiare in Italia dopo la caduta del potere temporale, ha in realtà un carattere e un rilievo autenticamente europei. 

Jemolo, coscienza sensibile, uomo di religiosità radicata e di fede cattolica scevra da pretese clericali e da propagande anticlericali, è inoltre voce critica nel desolante scenario della Grande Guerra. Respinge l’ambigua posizione dei socialisti e le smanie, ora coloniali e ora nazionalistiche, degli interventisti, che non si rendono conto del tributo di vite umane che la nuova Europa politica pagherà alla sua transizione istituzionale e interstatale. Arturo Carlo Jemolo vivrà in prima persona, peraltro, la difficile condizione della prigionia di guerra e, poi, quella non meno probante di giureconsulto alla Commissione per le riparazioni belliche a Vienna e Parigi. 

Da studioso raffinato quale sarà riconosciuto, il gius-ecclesiasticista intuisce la portata innovativa del pontificato di Benedetto XV. Sul piano normativo, il Papa adotta il primo Codice di diritto canonico nella storia della Chiesa (nel 1917). È però sul piano pastorale che la sua azione spicca per generosità e impegno, agli occhi dello stesso Jemolo: uomo di fede ostile alla guerra e assertore della cooperazione internazionale tra i popoli, con grande anticipo rispetto a molti studiosi di orientamento laico-civile. 

Trent’anni dopo, persino a Costituzione in vigore, Jemolo registrerà infine sul campo il tradimento delle sue temperate speranze giovanili, e da cattolico-liberale si schiererà, senza squilli di tromba, col frontismo democratico-popolare social-comunista. Un modo di rimarcare una distanza dalle vulgate di comodo, più che un abbandonarsi a sirene filosovietiche. Stucchevoli quanto tutte le stagioni di conflitti strumentali che lo studioso da sempre guardava con amaro e, più spesso, dolentissimo sospetto. Più che al mondo per blocchi, Jemolo è apparso sempre dedicarsi alla pace dei popoli e al rispetto tra le donne e gli uomini.