“Tutti, band e pubblico, mescolati in un’unica entità, e in una serata veramente buona – ciò accade di rado ma lo abbiamo intravisto – noi voliamo. È come se la musica avesse il potere di neutralizzare la forza di gravità. Come quei pazzi che vedi in tv, che si buttano da un aeroplano e si uniscono con le braccia, in caduta libera. Non sembra che stiano realmente cadendo, ma fluttuando, come se anche il tempo si fosse fermato. E forse queste fugaci visioni sono ciò che ci fa andare avanti, come una dose di droga che ci porta fuori dal fracasso e lo stridore della vita normale”.



È stata pubblicata a giugno 2019 dalle edizioni Vololibero la traduzione italiana della autobiografia di Joe Jackson ‘Gravità zero’ (370 pag.; euro 20,00). L’edizione originale, dal titolo ‘A cure for gravity’, risale al 1999: quale può essere il senso di una biografia a distanza di vent’anni dalla prima pubblicazione? Senza neanche un aggiornamento degli anni successivi.



La risposta risiede nel carattere peculiare di questo racconto. Non il racconto della ‘vita pubblica’ dell’artista: l’appassionato non troverà gli approfondimenti, le scene tagliate, il ‘making of’ delle sue opere conosciute (non cercate Stepping Out). Questa biografia è il racconto della ‘vita privata’ di Joe Jackson: quella precedente alle luci della ribalta fino all’incisione del primo disco: “Ero uscito dalle quinte ed ero sotto i riflettori, e questo mi sembra un punto perfetto per terminare. Non posso fare a meno di affermare che ciò che accadde dietro le quinte fosse in ogni caso più interessante. Sotto i riflettori, la Joe Jackson Band ha fatto tutte le cose che qualsiasi altra band ha sempre fatto sotto i riflettori”.



Perché nella vita dopo aver lavorato con passione ad un certo punto del percorso ci si chiede “come diavolo mi sono impelagato in tutto ciò?”. Ma le risposte non stanno nello svolgimento pubblico del tratto di strada conosciuto (pur brevemente riassunto), quanto nelle sue origini: “La mia maggior influenza come artista sul palco fu probabilmente Mark Andrews. Quando la gente mi domanda chi mi abbia influenzato, ho sempre l’impressione che si aspettino di sentire certi nomi: John Lennon, David Bowie, Graham Parker. La verità è che sono influenzato da tutto, ma in special modo dalle persone con cui ho lavorato da vicino, persone di cui nessun altro ha sentito parlare, persone come Martin Keel, Yannis Grapsas, Mike Hutton e i fratelli Barfield. E Mark, che arrivava sera dopo sera, senza la minima idea di cosa avrebbe fatto, ma con la fiera determinazione di far succedere qualcosa”.

Incomincia così un’indagine sulle cause raccontata, con il talento narrativo dell’autore, partendo dall’infanzia nell’ambiente della classe operaia a Portsmouth nelle zone depresse dell’Inghilterra degli anni ’60: “marinai nelle strade e gabbiani nel cielo. L’odore dell’alga marina veniva giù dal porto insieme all’odore di fish and chips. Un mucchio di pub. (…) I gabbiani li avevamo ribattezzati ‘falchi di merda’. In poche parole, non è che ci mettessimo lì seduti a comporre odi alla loro grazia nel volo. Per noi ciò che contava era solo se potessero o meno cagarti sulla testa.”

Un ambiente in cui la massima ambizione permessa doveva essere quella di “affrontare le nostre vite senza essere troppo notati” in contrasto con la curiosità e immaginazione di un bambino, e in cui vigeva la regola di soffrire stoicamente (già dai primi anni dovette convivere con problemi di asma, che lasciavano sgomenti i genitori preoccupati che lo avrebbero allontanato dai campi di calcio ed emarginato rispetto agli altri ragazzini)

La ricerca di una causa non può però arrivare ad una spiegazione: “è però giunto il momento per me di riconoscere, avendo già esposto tutte le psico-chiacchiere di causa ed effetto che potessi raccogliere, che non ho mai davvero capito il perché stia facendo quello che faccio. Sì, riguarda il collegamento: ho fatto parecchie amicizie grazie alla musica, e molti altri non li ho nemmeno incontrati. (…) Ma ancora, e al di là di tutto, resta il mistero della musica in sé stessa. Non so perché le idee musicali crescano nelle nostre teste. E non so nemmeno perché l’erba cresce, o crescano gli alberi, o crescano i bambini nel grembo. Tutto quello che so è che continua a succedere, e sembra che non possiamo farci un bel niente”.

Una vita non è l’evoluzione nel tempo di un sistema di cause ed effetti, ma di spunti, chiamate che riceviamo da qualcuno e che possiamo liberamente cogliere o no. Questa storia allora è il rendere onore a tutti coloro che hanno aperto un mondo nella vita dell’autore, senza preclusione di sorta. E delle preferenze che lo accompagnano. Il tutto attraverso la quotidiana e prosaica vita di un musicista narrata con la consueta ironia e divertenti aneddoti.

Abbiamo quindi i punti sorgivi delle caratteristiche che troveranno spazio nella sua opera, la prima canzone sentita per radio o il riconoscimento di una certa malinconia che caratterizza molta sua musica “avevo nove o dieci anni (…) era una calda giornata estiva, i chioschi di gelati facevano incassi da record e la città intera, l’intero mondo era felice. (…) da qualche parte, nel mezzo dei festeggiamenti, affiancai un’auto parcheggiata con i finestrini aperti, proprio quando l’autoradio suonava la musica del tema del film Exodus. Venni trafitto da quella musica. Era triste, ma energica. Nobile, ma con una struggente particolarità che mi portò alle lacrime. Tutti gli altri stavano facendo festa, ma mi sentii come se avessi scoperto una verità segreta: che dietro tutto ciò ci fosse tristezza. Non che la felicità, lo sfarzo o la cerimonia risultassero fasulli, ma che la tristezza fosse sempre presente, in delicato equilibrio con tutto il resto. Improvvisamente tutto mi pareva struggente, in modo insostenibile. E sapevo che nessun altro avrebbe capito. E nessuno avrebbe mai potuto. Quando la musica colpisce in questo modo, attraversa la logica e si libra come un acrobata sopra le pareti del raziocinio. Arriva in un modo viscerale, unico nella propria esperienza. Due persone non ascoltano mai la ‘stessa’ musica”.

O i pochi insegnanti che sanno vedere il futuro maestro delle orchestrazioni: “’Vedete’ disse raggiante ‘non ha solamente colpito i tamburi a casaccio. Ha atteso il momento giusto, senza suonare troppo. Suonava una piccola parte, ma l’avete sentita! Questo è il segreto. Se invece si comincia a colpire senza sosta un qualsiasi strumento, non lo si sente più!’ Al di là dell’essere stato un grosso incoraggiamento per il mio ego, fu una delle migliori lezioni di musica che abbia mai ricevuto. L’orchestrazione (…) è l’arte di decidere chi (…) debba suonare; quale parte, quando e come. E iniziò così per me un vecchio ma inossidabile principio: meno è meglio. (…) mi capita di sentire nastri demo di band in cui tutti suonano a manetta per tutto il tempo. Non sanno spiegarsi perché tutto suoni così monotono e cercano la cosa giusta da aggiungere.  (…) un musicista dovrebbe iniziare dal silenzio, una delle nostre capacità essenziali è quella di starsene semplicemente zitti ad ascoltare”.

Incontriamo le sue preferenze: Beethoven, Stravinskij, Sostakovic, Brahms no, Ellington sì, Gershwin, Soft Machine, King Crimson, Frank Zappa, Steely Dan, Stevie Wonder, Bob Marley, i Clash (“ero ipnotizzato dalla pura intensità dei Clash. Questi tipi, pensai, danno senso ad ogni nota”), i Sex Pistols no, i Television, i Talking Heads, Elvis Costello, i Prodigy ecc.

Sempre con un piede in tante scarpe, da ragazzo folgorato dalla musica classica in un ambiente di bulli di provincia sogna di fare il compositore; una volta entrato nel mondo della Royal Academy of Music di Londra (arriverà al diploma) diventa insofferente alla borghesia londinese e si ritrova appartenere allo stesso mondo di provincia da cui voleva fuggire e abbraccia il populismo del dare alla gente quello che la gente vuole purché si diverta e se ne faccia qualcosa della musica proposta.

“Avevo scelto da che parte stare e solo molto dopo mi resi conto che scegliere solitamente comporta una sorta di tradimento. Esercitandomi al pianoforte della scuola con Beethoven, invece che dare calci a un pallone avevo tradito la mia tribù. Non mi sentivo snob, ma ne avevo le sembianze. Ero riuscito a rimediare entrando nel mondo proletario del rock’n’roll, anche a rischio di tradire la dea, la musa della musica, Musica con la M maiuscola, e diventando in questo modo uno snob al contrario”.

La bravura del Joe Jackson scrittore dipinge così con pochi tratti anche un quadro sociale dell’Inghilterra di provincia di quegli anni:

“La mattina del mio primo giorno, faceva un freddo gelido ed era ancora buio. (…) Il traghetto era pieno di lavoratori portuali con le loro biciclette. Indossavano tutti dei giacconi neri corti, cappelli di lana con sciarpe, anch’esse per lo più nere, annodate strette al collo. Pure le loro biciclette, o ‘camminatrici’ come le chiamavano loro, erano tutte nere. Nel mio stato di semicoscienza mi domandavo cosa sarebbe successo a un portuale che una mattina si fosse presentato con una bici rossa”.

“Dopo ogni lungo e spesso arduo lunedì, nel tardo pomeriggio prendevo un treno per Portsmouth, usando la linea dei pendolari del Surrey. Questi treni erano pieni di chiassosi fumatori incalliti e alcolizzati, vestiti in abiti gessati che vomitavano fuori dal vagone ristorante e rovesciavano gin tonic sulla gente. Le loro risa sembravano forzate e sguaiate, come se questa mezz’ora di treno fosse la sola isola di svago tra la doppia oppressione del lavoro e della casa”.

“Era un quartiere violento. Gli spacciatori erano appostati agli angoli e dodicenni cresciuti in fretta spingevano passeggini carichi di radio e parti rubate d’impianti stereo. In realtà non era pericoloso, per lo meno se si usava un po’ di buon senso. Non era certo peggiore di dove ero cresciuto, e poi, mi piaceva la musica reggae”.

Il racconto ci porta così attraverso la gavetta di un pianista incapace di fare qualsiasi altro lavoro e disposto a suonare in qualsiasi condizione per un pubblico di marinai ubriachi, o violenti skinhead, piuttosto che accompagnatore di spogliarelliste o attori di cabaret. Fino a reagire nuovamente attraverso il mondo del rock.

L’incontro senza timore con il punk (“ho visto molta più violenza dalle parti dei pub dei marinai nella mia città di quanta ne avrei vista a un concerto punk”).

I primi concerti con la ‘propria’ band: “io, la band e il pubblico vibrare sulla stessa lunghezza d’onda, unire le braccia in caduta libera e il tempo fermarsi da qualche parte sopra le nuvole. Che fossi un genio, un alchimista, un mago un professore folle, avevo trovato un rimedio per la gravità. Il giorno seguente ero di nuovo Clark Kent ancora nel mio angolo tappezzato di viola e argento, a suonare bossa nova e accompagnare una ‘stilista vocale’”.

La scrittura, la produzione e pubblicazione del primo disco. E poi come un rapido volo, la carriera degli anni ’80 e la depressione “Ero esausto, stanco dell’industria musicale, la mia testa troppo piena di posizioni in classifica, piani di marketing, format radiofonici e rotazioni video per essere in grado di ricordarmi perché avessi iniziato a fare tutto ciò”.

E la risalita lontano dalla musica da top of the pops: “Come sia riuscito a uscire dalla depressione potrebbe riguardare un altro libro intero, e non sarebbe facile scriverlo. Basti dire che sono stato in grado di risalire da quel pozzo senza fondo una volta che mi sono convinto che Joe Jackson la popstar doveva morire; ma in quanto essere umano, e persino come musicista, io non dovessi morire con lui. Allora la musica ritornò. Dopo una perdita di fede, provai qualcosa come la Grazia”.

Molte altre considerazioni sul rapporto col mondo della musica sono presenti, tante che non basterebbe un libro a contenerle…. anzi… il libro c’è, per entrare in quella esperienza per cui “attraverso la musica (…) sono stato in grado di collegare il marciapiede alle stelle. È stata una buona religione come tante”.

(Pierluca Mancuso)