La vita dell’essere umano è legata saldamente ad un paradosso inaggirabile: per scorgere le verità che più gli stanno a cuore, le risposte ai quesiti che consumano la sua brama di conoscenza, è necessario addentrarsi negli anfratti più oscuri dell’anima. Farsi largo a tentoni nelle tenebre della coscienza, calarsi nel difficilmente governabile sottosuolo delle proprie pulsioni. Imparare finalmente a vedere nell’istante in cui si è disposti a chiudere gli occhi. Perché la luce, talvolta, può risultare più ingannevole del suo opposto.



Li acceca, quegli occhi, con il chiarore sgargiante di una falsa sicurezza. Dissolve le forme in contorni labili e indistinguibili, smaterializza la consistenza delle cose. E solo nell’oscurità, nell’istinto di sopravvivenza che ci spinge ad afferrarle come approdi del nostro tremebondo errare, la loro solidità torna miracolosamente a manifestarsi. Lì, nel sottosuolo, il desiderio si mescola all’accidia. La spasmodica ricerca del libero arbitrio si scontra con il peso delle convenzioni sociali. La solitudine e l’infelicità vanno a braccetto con la fierezza e la superbia. Lì, nel calderone in cui i nostri crucci ribollono continuamente, il risultato di queste arcaiche opposizioni è tutt’altro che scontato. Ad uscire vincitrice è solo l’autenticità del percorso. La certezza che qualsiasi sia l’esito di quel cammino discendente – che conduca alla risalita o al definitivo sprofondo – sarà stato meglio averlo intrapreso piuttosto che aver soppresso il proprio rovello.



Pochi scrittori si sono avventurati in questo abisso con la continuità e l’ossessività di Franz Kafka. E non è certo un caso che tra i cardini della poetica dell’autore boemo rientri l’ampio utilizzo delle allegorie animali come mezzo di riflessione sulla condizione umana. Animali, nello specifico, legati al mondo delle ombre, all’invisibile e ripugnante sottobosco della quotidianità. Gregor Samsa, il celebre e immortale uomo-scarafaggio de La metamorfosi, è in questo senso solo uno degli esempi di tale consuetudine, a cui vanno certamente aggiunti i topi di Josephine la cantante e, soprattutto, l’enigmatica fusione tra uomo e roditore in cui si incarna il protagonista del racconto La tana.



Scritto nel 1923 e pubblicato postumo (come spesso è accaduto) dall’amico Max Brod nel 1931, rappresenta una delle ultime grandi espressioni del pensiero kafkiano e, per certi aspetti, il suo compimento. Già dalle premesse del suo intreccio narrativo, infatti, il testo si offre al lettore in tutta la sua radicalità, ponendo al centro della scena un protagonista senza identità. Una figura priva di passato e terrorizzata dal futuro, irrimediabilmente isolata dal mondo e da sé stessa, che aspira unicamente a costruirsi un rifugio sotterraneo – una tana, appunto – per sfuggire a qualsivoglia occasione di contatto sociale. Tra passaggi labirintici, rotatorie, vere e proprie fortezze, l’edificazione si fa progressivamente sempre più complessa, al punto che il suo stesso ideatore fatica ad orientarsi al suo interno.

Un sincero desiderio di pace si trasforma in una inconsapevole autopunizione, nel rovesciamento del mito di Teseo e Arianna, in un inseguimento di fantasmi che si insinuano con crescente prepotenza nelle crepe di una quiete di facciata. E non basta, al tormentato, antropomorfo alter ego di Kafka concedersi un’ora d’aria all’insegna della caccia per convincersi che l’esclusione a cui si è condannato possa essere reversibile. Non basta a liberarlo dalla pressante sensazione che un sinistro sibilo nei pressi della sua roccaforte stia segnando l’arrivo di un temuto e non meglio specificato nemico.

È la china finale del racconto: che dapprima ci mostra l’incessante e affannoso scavare del protagonista alla ricerca di quel suono stridulo che sembra non avere fonte. E che poi, in un baleno, ci fulmina con la sua conclusione. L’uomo-roditore, convinto che una misteriosa creatura si aggiri nei dintorni con l’intento di ucciderlo, sceglie di trincerarsi per sempre nella prigione che aveva deputato a luogo di libertà. A perenne difesa di quell’ingresso che reputava inespugnabile. Mentre tra amarezza, compassione e beffarda ironia, l’autore sfuma le sue parole affermando che “tutto rimase immutato”.

Perché la tragedia della vicenda non risiede nella follia o nella nevrosi del protagonista. Né, tantomeno, nella sua profonda solitudine. È nello stato di nebbiosa sospensione, nel sovrapporsi di piani tra realtà e finzione, nella mortale indecisione tra vita e negazione della stessa che si cela il messaggio più scottante di questo piccolo gioiello kafkiano. Testimone di un tempo che si inchina all’inettitudine, al timore di un male che proviene apparentemente all’esterno ma che invece è già dentro sé. È la fine di quelle che Heidegger, di lì a poco, avrebbe definito “possibilità dell’esserci”, l’azzeramento di un mondo, e delle individualità che lo popolano, che preferisce inaridirsi, contorcersi sulla sua autoreferenzialità piuttosto che esplorare la ricchezza dell’apertura.

Un esito spiazzante e divergente rispetto a quello del principale sottotesto utilizzato da Kafka per il suo racconto: quel Memorie dal sottosuolo (1864) di Fëdor Dostoevskij – che lo scrittore boemo non manca di citare anche ne La metamorfosi – in cui il protagonista, anch’egli isolato per scelta da un mondo che ripudia e da cui ha imparato quanto anche la sofferenza, talvolta, possa essere confortante, dà vita ad un monologo ancora più crudo, disincantato, sprezzante e meschino della sua controparte. Ma, parallelamente al susseguirsi di considerazioni e atti deprecabili, affiora distintamente un desiderio di purezza in fieri, il tentativo claudicante ma verace di fare i conti con i propri sensi di colpa. La nobile aspirazione di coniugare lo straripare della volontà con un pacifico senso di redenzione dalle imposizioni e dalle imposture.

Per quanto cupo e impietoso, il romanzo di Dostoevskij, pur scavando come mai nessuno aveva fatto tra le pieghe dell’animo umano, non vi resta incagliato. Non scruta le sue voragini con la tentazione di lasciarsi avvincere dal loro melmoso fondale, ma con l’idea di farne un trampolino di lancio verso una superficie spesso ignota ma percepita come necessaria. Non cede alla tentazione di cristallizzarsi nella rassegnazione. Nella confessione dell’abiezione, insomma, lo scrittore russo intravede l’eterno presupposto della rinascita: non la garanzia del suo effettivo raggiungimento, ma piuttosto il presentificarsi di un’alternativa.

Kafka, dal canto suo, in quella stessa abiezione ravvisa un giudizio esistenziale insindacabile. Un’eterna paralisi. Ed è fra questi due estremi, tra questi due esiti a volte intercambiabili, che gli uomini vanno muovendosi. Su un filo sottile pronto a spezzarsi in entrambe le direzioni.

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