A volte, per cogliere il senso più profondo delle pagine in cui finisce per imbattersi, il lettore è chiamato ad essere indiscreto. A superare il confine di quelle parole elegantemente rilegate e impaginate per frugare nell’intimità, nella pudicizia, nella solitudine di ogni scrittore. Raccontare sé stessi attraverso le proprie opere è, di fatto, un’operazione estremamente complessa. Che può sfiorare, talvolta, persino una dimensione criptica. La ristretta intercapedine che separa realtà e finzione, dato letterario e dato fattuale, onestà narrativa e reticenza, autobiografia e memoria artefatta, finisce, non di rado, per condurre il fruitore di un’opera sul sentiero dell’incertezza, nel quale il fantasma dell’io narrante gioca a nascondino con quelli dell’io reale e dell’io narrato. Tanto più se il tuo nome è Franz Kafka e la tua scrittura, tra surrealismo e memorialismo, è una delle più magmatiche di sempre.



Quello che riguarda lo scrittore boemo, a ben considerare, è sostanzialmente un paradosso. Perché di Kafka sappiamo tutto: pochi autori hanno ricevuto la medesima attenzione critica, stilistica e persino psicologica. Sul suo rapporto di sudditanza con le origini ebraiche, sul perenne senso di colpa legato a doppio filo al tema religioso, sul paralizzante dolore per la sua condizione di malattia psico-fisica sono stati scritti, come si usa dire, fiumi d’inchiostro. E come se non bastasse, Kafka stesso fu a più riprese il primo medico e redattore di diagnosi di sé stesso. Ed è esattamente così, alla luce del suo malessere, della stratificata e personale cognizione del proprio stare al mondo, che oggi continuiamo a conoscerlo.



Accade, tuttavia, che per sciogliere la complessità, per mettere in luce gli anfratti più nascosti e sotterranei della nostra anima, sia qualcun altro a doverci raccontare. A dire di noi ciò che non sappiamo comunicare. O che non vogliamo. A linearizzare il nostro percorso labirintico lungo i viali intrecciati della vita. Kafka, spirito estraneo a qualsiasi logica schematica, il suo cantore sincero lo ha avuto. Era la amata scrittrice e traduttrice ceca Milena Jesenská, di cui il grande pubblico avrà memoria per via delle splendide missive raccolte poi in volume che l’autore de La metamorfosi le rivolse tra il 1920 e il 1923. Non tutti sanno, invece, che nonostante le risposte della donna non ci siano pervenute, dal 1978 siamo in possesso di alcune epistole nelle quali Milena si sofferma diffusamente con il suo interlocutore sul rapporto travagliato – e clandestino, dal momento che la donna era regolarmente sposata già da qualche anno – che la legò allo scrittore. Quell’interlocutore era Max Brod, anch’egli autore boemo, fidato compagno e migliore amico di Kafka, che non a caso lo designò suo erede. A lui va ascritto il merito non solo di averne realizzato la biografia, ma anche di avere incluso in essa, proprio nell’edizione che in Italia arrivò alla fine degli anni 70, il prezioso carteggio che condivise con la Jesenská. Per la prima volta, Kafka smise i panni di autore di sé stesso per indossare quelli da personaggio.



È commovente, a tratti estremamente lacerante, ripercorrere la delicatezza con cui, tra passione e rimorso, la donna si rivolge a Brod per avere notizie sulle condizioni dell’amato. Per scavare dietro la sua maschera di apparente e miracoloso equilibrio. In una lettera datata 21 luglio 1920, ad esempio, Milena confessa tutta la sua preoccupazione: “Avrei ancora, dottore, da rivolgerle una grande preghiera. Lei sa che da Frank non riesco mai a sapere come sta, ché a sentir lui sta sempre in modo eccellente, quel caro uomo, e che, per così dire, è ultrasano e ultratranquillo e così via. Io la vorrei pregare, veramente pregare, pregare – se vede, se si accorge che soffre, che per me soffre fisicamente, la prego, mi scriva subito, io non gli dico che lo so da lei e se lei me lo promette, sarò un pochino più tranquilla. Non so come lo aiuterò ma so certissimamente che sarò di aiuto”.

Si percepisce, tra le righe di quell’accorato appello, il lento declinare di un amore fantasticato, ma destinato a sfiorire. Malato di assenza, di lontananza, di una asfittica, vicendevole dipendenza. “Lei mi ringrazia, caro, caro Max, lei mi ringrazia – scrive il 29 luglio dello stesso anno – invece di rimproverarmi perché non sono già da un pezzo presso di lui, e me ne sto qui e non faccio altro che scriver lettere. La prego, la prego tanto: non pensi che io sia cattiva, che mi renda la vita facile. Sono qui straziata, sono disperata (non lo dica a Frank!). Ma lei scrive che sono qualche cosa per Frank, e ch’egli ha qualcosa da me, qualcosa di buono, e questo, mi creda, Max, è la più grande felicità”. Aleggia, poi, in questa infelice unione, lo spettro di una fatale inerzia. La stessa che impedisce a Milena di lasciarsi alle spalle la relazione con il marito: “La storia del mio matrimonio – prosegue nella stessa epistola – e dell’amore per mio marito è troppo complicata perché la possa raccontare qui. È così, però, che adesso non posso andar via, forse non lo potrò mai, io… no, le parole sono sciocche. Cerco però continuamente una via d’uscita, cerco sempre la soluzione, sempre ciò che è buono e giusto”.

Due volte. Solo due furono le occasioni in cui i due spasimanti riuscirono a vedersi. Il resto del loro amore si consumò sulla carta. Eppure, furono sufficienti quei pochi, fugaci sguardi, quelle parole differite da una ansiosa e ritardata corrispondenza, per svelare a Milena il Kafka più autentico. A questa epifania è dedicata una lettera datata ai primi di agosto del 1920: un vero affresco immortale che cristallizza come null’altro l’eccezionalità e l’umanità dello scrittore boemo.

“Lei chiede come mai Frank abbia paura dell’amore e non abbia paura della vita. Io penso invece che non sia così. La vita è per lui qualcosa di ben diverso che per tutti gli altri uomini. Soprattutto il denaro, la borsa, l’ufficio dei cambi, una macchina da scrivere sono per lui cose mistiche (e lo sono davvero meno che per noialtri), per lui sono enigmi stranissimi di fronte ai quali non ha assolutamente l’atteggiamento che abbiamo noi. Non riesce a capire le cose più semplici di questo mondo. […] Frank invece non può vivere. Frank non ha la capacità di vivere. Frank non guarirà mai. Frank morirà presto. Certo è che tutti noi siamo apparentemente capaci di vivere perché una volta ci siamo rifugiati nella menzogna, nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una convinzione, nel pessimismo o in qualcos’altro. Ma lui non si è mai rifugiato in un asilo che potesse proteggerlo. È assolutamente incapace di mentire come è incapace di ubriacarsi. È senza il minimo rifugio, senza un ricovero. Perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. È come un individuo nudo tra individui vestiti. E non è neanche tutta verità ciò che dice, ciò che è e che vive. È un determinato essere in sé e per sé, sgombro di qualsiasi sovrastruttura che possa aiutarlo a trasfigurare la vita, in bellezza o in miseria non importa. E il suo ascetismo non è affatto eroico – certo, appunto per ciò tanto più grande e più elevato. Ogni eroismo è menzogna e viltà. Non è uomo che si costruisca la sua ascesi come mezzo per un fine, è un uomo costretto all’ascesi dalla sua spaventosa chiaroveggenza, purezza e incapacità di scendere a compromessi”.

Furono quasi una triste profezia, quelle parole. Kafka morì appena quattro anni dopo. Ma mai nulla di più bello e di più vero fu scritto su di lui. Forse perché, prima o poi, tocca a chi ci ha amato rivelare chi siamo.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI