La storia ha improvvisamente cominciato a correre, ma in direzione contraria all’uomo. Soffrono gli innocenti, muoiono i giovani, patiscono i popoli. L’invasione dell’Ucraina da diverse direttrici con il lancio di missili russi a fine anno per un valore di oltre 1,3 miliardi di dollari, la disumana e azzardata azione terroristica di Hamas con la massiccia risposta militare israeliana e le sofferenze dei civili palestinesi, le minacce a Taiwan e il rischio reale di uno scontro globale: scenari che mettono in gioco un’antica categoria, quella del tragico.
Cerchiamo, però, di rimuovere il tragico dalla nostra vita, per non vedere lo scatenarsi delle forze irrazionali e il caos regnante. Riusciamo ad anestetizzare le immagini terribili che vediamo in televisione, perché non sentiamo l’odore degli sfollati costretti a non lavarsi, perché non vediamo le lacrime delle madri dei bimbi uccisi dalla furia iconoclasta e perché non sentiamo la voce straziata dei feriti. Non pensiamo agli scenari che possono prodursi o ci distraiamo dalle notizie cattive con il divertissement di pascaliana memoria.
Il tragico, tuttavia, nell’ottica greco-classica, sovrasta l’umano. È ciò che supera la dimensione razionale e si afferma triturando volontà, distruggendo intenzioni, portando al lamento straziato per la condizione umana. Robert D. Kaplan, politologo americano, nel suo libro La mente tragica. Paura, destino, potere nella politica contemporanea (Marsilio, 2023) considera il tragico come un elemento interpretativo necessario e decisivo per affrontare il nostro tempo. Scrive il suo lavoro, perciò, con ricchi e dotti riferimenti ai classici greci, a Shakespeare e a Nietzsche, a partire dalla sua sofferta esperienza.
Kaplan, corrispondente di guerra su più fronti, era stato favorevole all’invasione dell’Iraq. Ma proprio la visione in presa diretta dello scatenarsi di un gioco più grande, più vasto e disumano rispetto a quello pensato e previsto ha generato nella sua coscienza un radicale ripensamento della posizione iniziale. “A spingermi a scrivere questo libro è stata la depressione di cui ho sofferto per anni dopo l’errore di valutazione che avevo commesso rispetto alla guerra in Iraq. Avevo fallito il mio test di realismo, e addirittura sulla questione più importante della nostra epoca! Mi sarebbe per sempre risuonata nella mente l’osservazione del filosofo persiano medievale Abu Hamid al-Ghazali, secondo cui un anno di anarchia è peggiore di cent’anni di tirannide”.
La mancanza di timore per il caos, infatti, ha prodotto Falluja, il bombardamento del santuario di al-Askari a Samarra (luogo sacro sciita), un numero enorme di morti, la nascita dell’Isis. È mancata, per Kaplan, la “lungimiranza apprensiva”, cioè la consapevolezza che le cose non sono sotto il nostro completo controllo e possono volgere al peggio. C’è stata nei decisori dei destini dei popoli una hybris incapace di pensare la fallacia strutturale dell’uomo e la sua inanità (Schopenhauer). Perciò, per analoghi motivi, nella storia, diverse volte e nelle più svariate circostanze sono state superate linee rosse con incosciente tracotanza e senza sapere ciò che si faceva, provocando danni enormi. Altre volte non ci si è saputi fermare, oltrepassando il limite imposto dalla realtà. In Afghanistan dopo il rovesciamento del regime dei talebani “i vertici della Difesa e della Sicurezza interna hanno smesso di pensare tragicamente: hanno inviato un enorme esercito con un’ammuffita burocrazia verticale a occupare un Paese primitivo, dal territorio vasto e montuoso”, non facendo tesoro della grave sconfitta dell’Armata rossa nel periodo sovietico e di tutto quello che aveva prodotto, peggiorando la situazione.
La necessità storica come causa di una guerra, il disegno egemonico, il neoimperialismo o l’affermazione di principi astratti, insomma, fanno entrare nel tempo pulsioni distruttive e autodistruttive non più controllabili.
Nel chiuso cosmo tragico di Kaplan non esiste la redenzione: non è possibile una storia come quella di Sonja e Raskol’nikov in Delitto e castigo. I terribili crimini di Hitler e Stalin, Mao, Pol Pot sono stati il frutto di una cecità inveterata, perciò senza scuse e senza una possibile apertura ultima. Purtroppo, hanno avuto un seguito nel XXI secolo. Le scelte rovinose si sono susseguite, portando all’irruzione dell’irrazionale nella storia. Non un cigno nero alla Taleb, ma una serie di eventi caratterizzati dal buio della ragione. Insomma, per l’autore, Falstaff, Iago, Tito Andronico e le Troiane, con il loro pianto provocato dall’imperialismo, sono ancora in scena e nostri contemporanei con tutto quello che consegue.
Di fronte al caos dionisiaco che minaccia, smembra e devasta ed è perennemente in agguato, per Kaplan bisogna sviluppare una sensibilità tragica priva di orgoglio e in grado di fare ciò che è accettabile, per evitare la catastrofe. Come Nixon e Kissinger, che firmarono con la Cina una tregua con l’obiettivo di controbilanciare la potenza nucleare sovietica, e poi avviarono anche con l’URSS un percorso di disgelo.
In un’ottica di tal genere, il politico esemplare per eccellenza, secondo Kaplan, è stato George Bush senior, capace di accettare il limite e non andare oltre. Un presidente non trascinato da orgoglio, vanagloria e insensibilità tragica. Censurò con fermezza il massacro di Tiananmen, raffreddando il rapporto con Pechino, ma senza rompere le relazioni diplomatiche. E dopo aver liberato il Kuwait non si spinse fino a Baghdad. Ebbe una posizione prudente anche riguardo alla dissoluzione dell’URSS, suscitando polemiche e critiche da parte della stampa americana.
Bush senior, però, aveva conosciuto la guerra e visto la morte. Aveva, perciò, un sapere sulla possibilità della tragedia. Proprio chi non ha mai visto la guerra o fatto esperienza della morte corre il rischio della presunzione definitiva. Il politico di oggi ha dunque più che mai bisogno dei classici e dei tragici. Per Kaplan, perciò, sono più importanti Eschilo, Euripide e gli autori citati, rispetto agli strateghi e agli studiosi di geopolitica. I classici, infatti, mettono in luce il destino dell’uomo in tutta la sua grandezza e in tutta la sua incontrollabilità.
Le tesi di Kaplan sono sicuramente pregnanti e argomentate, ma sarebbe interessante che tutti i politici che decidono le sorti delle nazioni e sono coinvolti nelle grandi crisi attuali o le hanno prodotte con le loro scelte azzardate pensassero al tragico, fino in fondo. Ciò potrebbe ridurre il rischio di trovarsi giocati da un gioco finale più grande di quello pensato prima e macchiato di sangue nazionale e universale. Non bisogna dimenticare, peraltro, a tal proposito, che chi invoca la necessità storica di una scelta chiude il terreno della possibilità, consegnandosi al cieco “ciò che non può essere altrimenti”.
Tuttavia, forse è anche il caso di riprendere la grande e dimenticata lezione di Niebuhr sull’incidenza del peccato nella storia e sugli argini necessari che possono evitare la sua esplosione. D’altro canto la grande tradizione cristiana ritiene che il giudizio sui propri atti cattivi non è solo in un oltre, ma è presente già ora, in fondo al cuore: si chiama dis-grazia. Quest’ultima può cedere però il passo di fronte a un auspicabile spostamento di posizione, a un cambiamento di prospettiva.
È quello che ogni uomo ragionevole augura a sé e a tutti in un tempo che rischia di diventare sempre più incandescente.
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