Alcuni libri vanno assolutamente letti. Ci permettono di entrare nel mistero del nostro essere e sembrano anche curiosamente contemporanei. Il testo di Jurij Karjakin, Dostoevskij e l’Apocalisse (WriteUp Books, Roma 2021), a cura di Cinzia De Lotto, è un aiuto straordinario a guardare tutta la realtà umana con occhi diversi. Lo sguardo da seguire è quello di un autore che ha vissuto la sua vita, testimoniando un grande amore al vero, con singolare coraggio intellettuale, in un’epoca di lupi. Karjakin nel suo impegno politico e morale ha cercato di vivere con la coscienza che “tutti i nostri ideali si realizzano esattamente nella misura in cui noi stessi – in prima persona e tutti insieme – li incarniamo. Non di più, ma neppure di meno”.



Filosofo e letterato, nato a Perm’ nel 1930, dopo la laurea in filosofia conseguita a Mosca nel 1953, fu espulso nel 1955 dai corsi per essersi espresso contro le menzogne storiche portate avanti dai dirigenti della cattedra di filosofia russa. La sua posizione critica nei confronti dell’ideologia dominante comportò un prezzo elevato da pagare: l’esclusione dal partito e la disoccupazione. Il suo impegno morale e civile continuò, poi, con il lavoro nella rivista Problemy mira i socializma (I problemi della pace e del socialismo), una sorta di originale laboratorio di idee marxiste, intento a promuovere un primo approccio tra marxismo e cristianesimo, comunismo e socialdemocrazia. Nel 1968 una nuova angheria: fu accusato dal Partito di “immaturità politica” per avere preso posizione a favore di Solženicyn in una serata dedicata ad Andrej Platonov.



Karjakin stimava molto l’autore di Arcipelago Gulag e vedeva nel suo pensiero una strada per il futuro della terra russa. Le fondamenta dell’opera di Solženicyn erano basate sul riconoscimento delle specificità della cultura nazionale e sulla necessità di sottolineare i contributi spirituali dell’anima europea della Russia.

Lo studioso dostoevskiano fu sempre attento, anche, ai rischi per la sicurezza dell’umanità, segnalando, a più riprese, la gravità della minaccia nucleare. Nel 1988 collaborò alla nascita di Memorial con Andrej Sacharov. E nel 1989, con autentica forza di spirito e coraggio morale, chiese di traslare la salma di Lenin nel cimitero Volkov di Leningrado. Infine, dopo essere stato membro del Consiglio presidenziale sia con Gorbaciov che con Eltsin, uscì nel 1994 dall’ importante organismo politico a seguito dell’invio delle truppe russe in Cecenia.



L’insegnamento che ci dà Karjakin nel suo testo è che non solo bisogna leggere l’opera del genio russo, ma rileggerla. Dostoevskij, inoltre, va letto ad alta voce, perché le sue parole sono pensate con un tono drammatico e con una vita pulsante. Pensiamo allo scrittore russo, mentre dettava ad Anna Snitkina, sua futura moglie, il celebre romanzo Delitto e castigo. Le parole che uscivano dall’anima dello scrittore erano fuoco vivo. Parole tese al bene ultimo dell’uomo, al suo destino definitivo. La vita che salva Raskol’nikov dalla menzogna, infatti, è espressa da Sonja con una voce che sembra venire alla luce dall’infinito. Sonja, costretta alla prostituzione, viene superata da una presenza esuberante che vive in lei. La salvezza arriva, così, al giovane assassino dalla parola inaspettata di un’esclusa che lo chiama alla vita vera.

Parole di vita declamate ad alta voce di cui conferma l’importanza Pavel Fokin, direttore del Museo Dostoevskij di San Pietroburgo, in Un certo Dostoevskij, a cura di Paolo Nori (Utet, 2021). La lettura pubblica fatta dallo scrittore di alcuni suoi testi “era veramente qualcosa di sovrumano… che contagiava e sbalordiva allo stesso tempo l’ascoltatore”.

I personaggi del genio russo, insomma, non sono di carta, sia nel bene che nel male. E non possono essere ristretti nel corto perimetro di uno sguardo momentaneo. Essi mettono in scena le drammatiche profondità del cuore, che non può essere rinsecchito in una dimensione naturalistica. I demòni, ad esempio, con le loro idee infettano gli uomini e con le loro azioni seminano l’odio. La loro voce di morte ricorda i basilischi dei bestiari medievali. È necessario evitarla, perciò, essendo consapevoli della sua falsità.

Bisogna però fare attenzione a non confondere Dostoevskij con i suoi personaggi. Lo scrittore guarda, infatti, tutta la larghezza della vita e gli abissi dell’umano. Ma ha un giudizio preciso. Non si deve cadere nella trappola mentale dell’autoinganno come accade a Raskol’nikov. L’uomo, erroneamente, pensa e si pensa non considerando la realtà e il suo mistero. Restringe la vita o pensa di piegarla a false idee napoleoniche. Il superomismo, però, non tiene e si sbriciola di fronte alla vita. Ecco dunque la predilezione dello scrittore per i bambini. Sono i piccoli a indicare con il loro stupore o la loro sofferenza una strada senza menzogna. La loro esistenza è sempre segno di un cambiamento necessario per tutti. Ma il mondo non accetta l’insegnamento del Sogno di un uomo ridicolo, che è uno tra i testi dostoevskiani più amati da Karjakin. Non accoglie la luce nuova che l’uomo ridicolo ha intravisto grazie a una bambina sofferente. L’umanità, perciò, va verso il suicidio senza rendersene conto. E quando il clown parla agli uomini dell’incendio devastante che sta divorando la vita,  tutti credono che sia un gioco e ridono. Per Kierkegaard, autore del racconto, citato da Karjakin, siamo spettatori distratti che non capiscono che tutto può finire davvero.

Per troppi la vita è uno spettacolo a cui assistere passivamente senza mai entrare nel suo significato drammatico. Bisogna avere perciò il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Dostoevskij, nostro contemporaneo, ci fa capire l’importanza della responsabilità personale. E con lui Karjakin. Lo studioso vede in un viaggio fatto a Phnom Penh gli effetti del genocidio prodotto dai Khmer rossi, ed è perciò colpito al cuore dalle tante sofferenze prodotte dalla crudeltà. L’ideologia di morte dei Khmer è proprio quella dei demòni. È, insomma, interna al testo dostoevskiano, così come la sua fine mortale nell’autodistruzione.

L’uomo consapevole ha perciò una grande responsabilità nella storia: quella di dire il vero sul falso e di indicare una strada diversa. Karjakin con uno sguardo profondo e consonante a quello di Dostoevskij vede, dunque, in profondità non solo il suo tempo, ma anche il nostro e forse quello a-venire.

Nella nuova epoca di lupi bisogna avere, innanzitutto, la diagnosi precisa sulla malattia in corso: “Sembra che non ci sia mai stato, né in Russia, né in tutto il mondo, un caos come quello del nostro tempo. Sia fuori, sia dentro di noi”.

Di fronte al caos, cioè all’abisso spalancato, e al cedimento spirituale e morale in atto, bisogna avere una bussola sicura per navigare e verificare la rotta. Non bastano fedeltà coerente ai princìpi e convinzioni oneste. Servono domande radicali come quelle che pone Karjakin: “Chiedo, senza timore di essere diretto e indelicato: Cristo benedirebbe la corsa agli armamenti? Benedirebbe il nazismo e il comunismo? Benedirebbe Auschwitz e il lager del Gulag? Inciterebbe alla guerra civile, accosterebbe il cristianesimo, l’ortodossia al nazismo, al fascismo? Premerebbe il pulsante? No”.

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