“Il saggio aspira a conoscere, non a farsi conoscere”. È una frase di Lao-Tse ed è una delle ultime cose che mi aveva detto Karl Evver, scomparso il 4 novembre a cinquantanove anni per una malattia inesorabile. La sua non era la civetteria un po’ ipocrita di chi finge disinteresse per i riconoscimenti esteriori, magari perché non ne ha ricevuti, e in realtà cerca solo quelli. Evver invece, che era scrittore, fotografo, artista, filosofo (non necessariamente in questo ordine) e aveva organizzato, con pochi mezzi, convegni, tavole rotonde, eventi teatrali, era autenticamente lontano dal sistema dell’arte, dal carosello delle gallerie e dei critici. E anche per la sua vicenda intensa, ma per nulla “presenzialista”, andrebbe ricordato. C’era qualcosa in lui che amava nascondersi, a cominciare da quel Karl Evver, che era un nome d’arte. Dietro la fisionomia tedesca si celava un’origine italianissima, anzi emiliano-lombarda: era nato a Piacenza nel 1964, sua madre era bergamasca e suo padre di Voghera.
Anche i romanzi filosofici che aveva pubblicato (sempre a sue spese, nonostante un contatto con una importante casa editrice, da cui però si era staccato per non sottostare al taglio di un capitolo che gli era stato imposto) li aveva intestati a un autore fittizio, tra ebraico e assiro: Jacob Shalmaneser. Con un altro nome improbabile, lo pseudoellenistico Teostide, aveva stampato a diciannove anni un libretto di poesie di nemmeno cinquanta pagine, ma dal bel titolo evocativo, Litanie di stelle. Non gli erano mancati i segni di interesse e di stima ma, certo, il mutare sempre nome e attribuire il proprio lavoro, già poliedrico di per sé, a tre autori diversi, non aveva favorito il suo cursus honorum, di cui del resto non si curava.
A Piacenza, per tornare al suo misterioso curriculum vitae (poco noto persino alla sua famiglia), aveva compiuto gli studi classici ma, dopo aver frequentato con voti eccellenti il primo anno e aver vinto una borsa di studio, si era lasciato bocciare due volte, rifiutando ostinatamente di rispondere alle interrogazioni. Forse quella vena autodistruttiva (perché c’era anche questa componente nel suo temperamento anarchico, ironico ma capace di una gentilezza d’altri tempi) era, a quell’epoca, una reazione alla separazione dei genitori, di cui aveva sofferto molto. Ma in seguito era stata una reazione alla menzogna e alla chiacchiera che ci circonda. Aveva qualcosa di autobiografico anche la mostra che stava progettando e non ha fatto in tempo a realizzare: Francesco Petrarca pessimo studente a Bologna. Dietro la maschera del poeta, che era stato un allievo insofferente delle discipline giuridiche, si nascondeva lui, Evver, che era insofferente dei dadi truccati, delle frasi fatte, dei “libri di storia con le loro storie”.
Aveva poi trovato un modo per scavalcare il sistema dell’arte: pubblicava tutti i suoi quadri in internet, come una sorta di collezione pubblica aperta gratuitamente a tutti. Eppure, al di là delle utopie, quello che gli interessava e che esprimeva nei suoi lavori era l’uomo, la brevità del suo destino terreno. In uno dei suoi cicli di opere più significativi aveva reso omaggio a Piero Manzoni, un protagonista dell’avanguardia europea, raccontando le sue vicende come avrebbe fatto un cantastorie di una volta. Aveva trasformato un maestro del moderno in un mito popolare, nel protagonista di una narrazione condotta sul filo dell’assurdo, disegnata con linee così leggere che avrebbero potuto spezzarsi in ogni momento. Del resto tutte le sue figure, ispirate vagamente a Twombly e all’espressionismo, erano fragili, ammaccate, deformi. Aveva creato così una sorta di Pop Art esistenzialista, di Bad Painting semischerzosa e semiaccorata, dove tutto era affettuosamente inverosimile e delicatamente visionario. Le sue sagome, volatili e goffe, davano un’idea non trionfalistica dell’uomo (La stupidità di credersi buoni è il titolo di un suo romanzo).
C’era però nei suoi lavori anche la ricerca di un oltre. Aveva intitolato un ciclo di opere Anercosemiche. Non si è mai capito cosa l’aggettivo volesse dire, ma mi piace pensare che derivasse dal greco “anerchomai”, risalire (da “erchomai”, andare, e “ana”, verso l’alto). L’anno scorso, incontrandolo per caso, mi aveva citato San Paolo: “Morte, dov’è la tua vittoria?”. Mi ero meravigliata, ma poi avevo dimenticato quelle parole. Mi sono tornate in mente quando ho saputo che se ne era andato il 4 novembre: anniversario di un’altra vittoria ma, comunque, di una vittoria.
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