“Qualcosa che si racconta per il gusto della compagnia, per comunicare il senso del religioso, del timore-amore reverenziale, sulla vita vera, in un mondo vero che la letteratura (come in questo libro) dovrebbe riflettere”, scrive Jack Kerouac a inizio di quello che rimarrà come il suo ultimo libro, scritto e pubblicato prima della morte. Resoconto di un viaggio di dieci giorni in Francia, spinto dal suo editore che vuole cogliere (economicamente) il momento di riscoperta dell’autore di Sulla strada da parte dei giovani contestatori dell’America degli anni 60, Satori a Parigi (1966) è invece il drammatico testamento di un uomo che cerca di vendersi ancora come il poeta beat “dell’illuminazione” (“satori”, nel buddismo giapponese, indica lo stato di illuminazione che si vive quando si percepisce una verità esistenziale), ma invece è solo un alcolizzato devastato che percepisce, magari inconsciamente, avvicinarsi la morte. Che avverrà tre anni soltanto dopo la pubblicazione di questo libro, nel 1969.



Se l’America “contro” di quegli anni lo riscopre, lui se ne allontana. Vive da anni come un eremita con la madre in Florida come qualunque pensionato di quella borghesia che una volta criticava e prendeva in giro, preferisce restare annebbiato nei fumi dell’alcol e rifiutare pubblicamente i movimenti beat e hippie da lui stesso creati, nonché tutta la controcultura americana del momento, a cui viene sempre accostato ma che non lo rappresenta. Come uno scienziato che crea un mostro da cui poi deve fuggire.



Nonostante questo senso di fine imminente, Kerouac è capace di una finissima autoironia, giocando con quello che fu il suo stile letterario di prosa spontanea (“Essendo il tempo indispensabile alla purezza del discorso, il linguaggio dello schizzo sgorga dalla mente come un flusso imperturbato di segrete idee verbali personali, che soffiano (come fa un musicista jazz) nel soggetto dell’immagine” diceva lui stesso) quasi a prendersi in giro. O forse è solo colpa del troppo cognac e dei troppi brandy che beve senza sosta in quei dieci giorni, in cui si reca da Parigi alla Bretagna, a Brest, sulla punta di Finistère, il “fine terra” che simboleggia la sua stessa fine. Non c’è più un ovest a cui dirigersi, come aveva fatto per anni: la strada, quella “strada”, è finita.



Kerouac non compie la missione per la quale è stato inviato dal suo editore, cercare le sue origini bretoni (“Stavo cercando di scoprire qualcosa della mia famiglia, presi il primo Lebris de Kérouack che mai tornò in Francia in 210 anni”). Nel libro, della ricerca delle proprie origini, non c’è nulla, in realtà; solo descrizioni del suo girovagare, francesi incontrati nei bar, le disquisizioni sui nomi bretoni, talvolta le incomprensioni verso questa cultura, i vicoli notturni bagnati dalla pioggia, donne misteriose, affamate di vita come lui, l’incontro con una sbiadita bellezza francese in un gangster bar di Montparnasse, perde l’areo che deve portarlo in Bretagna e ci arriva faticosamente in treno, vaga per le strade buie di Brest senza un hotel cercando il suo bagaglio smarrito.

Ma se non c’è più l’infinito amore per la vita, la curiosità che lo contraddistingueva da giovane, la voglia di scoprire il mondo e con esso se stesso che lo aveva caratterizzato, Kerouac conserva  lo stesso stile con cui ha vissuto, cioè lo stato di ebrezza alcolica, “fuori giro” e per questo adopera vari registri espressivi: ironico e grottesco, sincero (fino alla spietatezza) e riflessivo, digressivo e forse inutilmente erudito, colloquiale e invettivo, asciutto e farraginoso, veloce e surreale.

Un ritorno al paese ancestrale, la Bretagna, “per conoscere questo mio nome vecchio di tremila anni rimasto immutato in tutto questo tempo”, come desiderio di conoscere finalmente se stesso. Un itinerario personalissimo e vibrante nel quale l’aspetto emotivo prevale su quello razionale e che, iniziato per ritrovare le origini, si conclude con la scoperta di un nuovo senso dell’esistenza, un’“illuminazione improvvisa”, un “risveglio”, o semplicemente un “pugno nell’occhio”.

Il suo declino psico-fisico, legato alla sua vita inconcludente, a risposte che non trova, a una fama non gradita e all’abuso di alcol, è inesorabile. Il sogno di diventare il più grande scrittore del Rinascimento americano si è realizzato, ma non è come doveva essere, e per Jack è troppo tardi:  “Ero venuto in Francia e in Bretagna per conoscere questo mio nome vecchio di tremila anni e rimasto immutato in tutto questo tempo, perché chi mai cambierebbe un nome che significa Casa (Ker), Nel Campo (Ouac)”.

Nonostante tutto questo, rimangono sprazzi di senso dello humor, come quando si reca nella Sainte-Chapelle dove è sepolto San Luigi, re Luigi IX di Francia, e una signora con i figli gli mette qualche centesimo nel cappello “per insegnare loro la caritas (misericordia) e io accettai per non ferirla nei suoi istinti evangelico-didattici o per non imbarazzare i figli”.

Kerouac incarna la solitudine e la sensazione di essere perso nel mondo, è il perfetto finale della Leggenda di Duluoz a cui si era dedicato per tutta la vita: “Quando gli ho detto il motto della mia famiglia ancestrale, Aimer, Travailler et Souffrir (Amore, Lavoro e Sofferenza) ha detto: Mi piace la parte dell’Amore, il Lavoro mi ha dato l’ernia e la Sofferenza è quella che vedi in me adesso”.

L’illuminazione che si legge nel libro è uno stato di grazia che dovrebbe prevalere, mentre l’assenza di grazia dovrebbe essere respinta, ma Kerouac ha fallito, e l’illuminazione è solo un momento di satori per il lettore su un uomo che era stato un mito ma si era ubriacato troppo.

Muore tre anni dopo l’uscita del libro, per una ulcera perforata. Forse, quell’illuminazione l’ha avuta in quel momento, vedendo il volto di quel Dio che aveva cercato disperatamente per tutta la vita.

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