Ci sono dei grandi classici intorno ai quali giro da anni, affascinato eppure incapace di prendere chissà quale coraggio per affrontarli, poi una serie inconfondibile di segnali mi fanno decidere di aprire quelle pagine che mi aspettavano. Così in questi giorni mi sono tuffato nell’icona della beat generation, e ho finalmente letto Sulla strada di Jack Kerouac.



La vicenda ha segnato un’epoca, consegnandoci in prima visione un anticipo delle irrequiete vite di giovani americani del secondo dopoguerra, incapaci di adattarsi e accettare il modello perbenista del loro tempo. Non è ancora la rivolta accesa della fine degli anni sessanta, ma è un punto di rottura forte con un modello di vita che, molto semplicemente, non ha più niente da dire e allora ci si mette sulla strada, cercando in maniera disordinata una traiettoria, senza sapere quale.



“Voglio andare a New York. Non ne posso più di tutto questo. L’unico posto dove si può andare è Cheyenne, e a Cheyenne non c’è niente.
Non c’è niente nemmeno a New York.
Balle, disse lei con una smorfia”.

Il malessere è avvertito e mai veramente affrontato perché non ci sono le forze per farlo. È la nota carsica di tutta la trama. Il disagio è il motore che spinge i protagonisti a lasciare casa e attraversare gli States con mezzi di fortuna cacciandosi in avventure senza senso, alternando euforia e adrenalina a orribili istanti di vuoto senza nome. “Restammo sdraiati sulla schiena a guardare il soffitto e a chiederci cosa avesse avuto in mente Dio quando aveva fatto la vita così triste”.



C’è solo da andare: attraversare villaggi e città, da est a ovest, da New York a San Francisco, sospinti da una speranza senza nome che non accenna ad affievolirsi neanche quando il viaggio termina: “ora ero arrivato alla fine dell’America – non c’era più terra davanti a me – e non mi restava che tornare indietro”.

Poi per qualche stagione ci si ferma, si prova a rimettersi in riga, a riassestarsi e prendere moglie, fare figli, comprare casa e fare un lavoro dignitoso, ma quella smania risale, prende forza e si ritorna ad andare via, senza sapere dove. E il viaggio si avventura in ubriacature senza fine, in bordelli messicani e stordimenti provocati dalla marijuana.

Fa pensare Kerouac: fa riflettere su frammenti di libertà che coraggiosamente non si riconoscono in un mondo che ha smarrito la forza di mostrare la significazione delle leggi morali che impone e che quindi non meritano più rispetto. C’è altro da cercare oltre l’orizzonte cupo. Ma la ricerca è a tentoni, confusa e disordinata, come quella di bambini lasciati improvvisamente nelle condizioni di fare tutto quello di cui hanno voglia.

Affiora uno struggimento per queste esistenze incapaci – come in tutti i tempi – di decifrare la natura di promessa di un disagio che fa male.

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