“Torturato e beat(o). Buddha reincarnato negli abiti di novello Shakespeare. Mistico pazzo cristiano. Figura spettrale inseguito dal senso di colpa e del peccato. Uomo sensuale, innamorato della purezza. Selvaggio e confuso viandante, perso sulla strada americana. Folle di vita, ossessionato dalla morte. Cantore della verità, trafitto dalla sua disillusione. Alla ricerca disperata del volto di Dio”. Così comincia il bel libro di Luca Miele (Il Vangelo secondo Jack Kerouac, Claudiana, 2020) giornalista di Avvenire e già autore di libri altrettanto belli come Il Vangelo secondo Bruce Springsteen; Il Vangelo secondo il rock (con Massimo Granieri) e Mio padre odiava il rock.



Un libro che mancava decisamente in Italia e che finalmente mette sui giusti binari la figura immensa di Jack Kerouac (1922-1969), che Miele definisce “elusivo, sfuggente, labirintico”. Recuperando poi le parole di Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, dal suo Nelle vene d’America. Da Walt Whitman a Jack Kerouac, “Jack Kerouac è stato un mistico e come tale va annoverato tra i più importanti autori spirituali del XX secolo”.



Ma come? Kerouac non era quello che ha sdoganato il sesso libero, le droghe e l’alcol, la fuga come condizione di vita nichilista (“Andiamo. Dove? Non lo so, ma andiamo” da Sulla strada), la ribellione come unica possibilità di vita? Per decenni così è stato infatti etichettato, autore maledetto finito male “come si meritano tutti i maledetti”, alcolizzato. È sempre stata una lettura superficiale e spesso indotta anche da logiche di marketing: impossibile pensare al mito dei giovani in jeans che scappano di casa negli anni 60 e 70 senza la figura di Kerouac. Una lettura limitata. Se ne era già accorto chi non si era fermato a Sulla strada (tutto sommato un episodio parziale nella carriera letteraria dello scrittore franco-americano) ma lo aveva approfondito leggendo altri capolavori, ben più pregnanti, come I vagabondi del Dharma, Big Sur, Tristesse, Maggie Cassidy, Satori a Parigi. “Il catalogo dei rimandi religiosi” dice Luca Miele “che attraversano l’autore di Sulla strada, è pressoché sconfinato”.



Trafitto da questa ricerca continua del volto di Dio, ricercata a ritroso in modo disperato nella sua infanzia e giovinezza nella piccola Lowell cattolica, Kerouac, pur precipitando nel buco nero della depressione e dell’alcolismo, con la sua interminabile lotta con Dio, le sue fughe e i suoi ritorni, conferma la validità del vecchio detto, “una volta cattolico, sempre cattolico”.

Nella sua bella introduzione, “Canzone per Jack Kerouac”, scritta con lo stesso flusso di coscienza ininterrotto alla Kerouac, Miele tocca il punto dolente della tragedia kerouachiana, quel lutto da cui non si sarebbe mai tirato fuori, indossandosene anzi le colpe, la morte del fratellino Gerard: “Gerard è morto, l’anima è morta il mondo è morto e il morto è morto”. E ancora: “Sento la colpa della morte di mio fratello sento la colpa della morte di mio padre e solo quando morirò a mia volte quella colpa sparirà”. Non si esce da un senso di colpa così immane che ti fa sentire colpevole per essere rimasto vivo quando tuo fratello invece è morto.

Life is not enough, annota Kerouac nell’agosto del ’49, “la vita non è abbastanza”. “Allora cosa voglio? Voglio una decisione per l’eternità, qualcosa da cui scegliere e da cui non mi allontanerò mai (…) Perché dovrei volere tutto questo? Perché qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare” annota Antonio Spadaro nella sua postfazione. Parole che identificano l’autentica e totale posizione religiosa di un uomo. Quello che era davvero Jack Kerouac. Con buona pace di tutti, toccherà rileggere i suoi libri con uno sguardo diverso, ora: “Dio, devo vedere il tuo volto questa mattina, il Tuo Volto attraverso i vetri polverosi della finestra, tra il vapore e il furore”.