È ormai figura retorica che l’infosfera globale e onnipervasiva nella quale viviamo generi più confusione, conformismo e divisioni di quanto non contribuisca a un autentico sapere comune. T. S. Eliot aveva sintetizzato il concetto assai prima dell’avvento di Internet: “Dov’è la Vita che abbiamo perduto esistendo?/ Dov’è la Saggezza che abbiamo perduto nella conoscenza? / E dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione?” (Choruses from “The Rock”, 1936).



Senza dubbio la miseria e la solitudine quotidianamente messe a nudo dall’iperconnettività ci avevano appestati già prima di Instagram e del 5G. Eppure, pretendendo di potenziarla, l’interfaccia digitale plasma e irreggimenta la stessa possibilità della comunicazione. La fitta rete di segnali che disvia il desiderio di significato maschera il crollo della casa comune del linguaggio.



Per linguaggio non intendo meramente lo strumento linguistico, ma l’insieme delle strutture simboliche comunitarie e storiche che incarnano la possibilità dello scambio e quindi della costruzione di senso.

Il linguaggio, insomma, è l’entelechia della cultura: quella puntiforme, invisibile ruota che produce tutto il visibile, il dimensionato, il segnato nel quale viviamo, dalle leggi alla poesia, dall’economia alla sessualità, dalla guerra all’architettura. In un recente saggio, richiamandosi a Nelson Goodman, Sergio Los ha offerto una felice spiegazione del perché città e paesaggi, in tal senso, siano altrettanti linguaggi (Città e paesaggi come sistemi simbolici, Artena Anarchist Press, 2019).



Eliot parlava di Dio come della pietra d’angolo della casa d’amore, il corpo mistico della chiesa dal quale dovrebbe costantemente venire a ricostruirsi la città degli uomini, modellandosi sulla dimora ultraterrena del Padre. Rifiutando Dio, ricordava nei Cori, le abitudini civili che diamo per scontate (giustizia, verità, diritto…) risultano scosse dalle fondamenta, e tutte le contraddizioni di un’irredenta arcaicità tornano ad affollare il presente con “l’antico volto appassito di un bambino morto d’inedia”.

La dissoluzione del linguaggio come effetto della morte di Dio fu previsto dallo stesso Nietzsche. Ma cosa significa questa morte se non la fine della città, lo sterminio della comunità, il crollo dell’ambiente civico come conseguenza logica della voragine metafisica del nichilismo? E cos’è il nichilismo se non il dilavamento del senso da ogni aspetto della nostra esistenza, e il suo travisamento in un girotondo che il filosofo di Zarathustra rappresentava nella leggerezza dell’ultimo uomo (“Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente”, tratto da Also sprach Zarathustra, Erster teil Zarathustras vorrede, 5)?

A velocità vertiginosa, sotto i nostri occhi, individualismi e incomunicabilità sostituiscono tessuti simbolici e riti di grazia fondati su una significanza radicale che una volta permetteva la dimensione comunitaria. In tal senso, il Dio di Nietzsche e di Eliot è il linguaggio che saremmo destinati ad abitare; e con il cadavere di Dio è la nostra carne civica a corrompersi.

Consustanziale alla devastazione di questo tessuto comune è l’impostura linguistica, un dispositivo di cancellazione della memoria teso a nascondere tale devastazione. Pseudo-città, pseudo-comunità e pseudo-identità ricoprono la vista delle infinite macerie urbane del mondo tra le quali ci aggiriamo sonnambuli; danze costantemente rinnovate d’immagini si sovrappongono alle nostre case alienate, svuotate, bombardate; ai corpi delle sorelle, dei fratelli, dei genitori e dei figli intossicati, dispersi, assassinati. Così funziona l’economia (la più invertita fra le scienze, essa che doveva occuparsi dell’oikos), in una processione di sfruttamenti, bolle e illusioni; così dovranno funzionare le nostre esistenze parcellizzate.

Siria, marzo 2011. Nel contesto della cosiddetta “Primavera araba” e d’interessi geopolitici mondiali le proteste per la corruzione, le ingiustizie quotidiane e le frustrazioni sociali e individuali di un Paese di antica civiltà sfociano rapidamente in un esito che risulta inatteso anche ai più arditi contestatori: una diffusa insofferenza civile trova sfogo in fiamme di furore; a ondate si sversa sulle città, incendiandole con episodi di violenza che innescano vendette e reazioni, fino a degenerare in una generalizzata, spaventosa guerra civile. Ad oggi le cifre riportate offrono un quadro apocalittico: fra 250 e 500mila morti, quasi tre milioni tra feriti e menomati, 12 milioni e mezzo di rifugiati, 400 miliardi di dollari di danni materiali, disoccupazione al 53% (e su tutto ciò lo strangolamento delle sanzioni occidentali).

L’architetta siriana Marwa al-Sabouni, una delle voci contemporanee più interessanti del Medio Oriente, ci guida per mano dentro la propria esperienza di questo teatro dell’assurdo, il cui inizio è ben anteriore ai primi colpi di mortaio.

Il suo libro, che le è valso importanti riconoscimenti internazionali, una traduzione in francese e ora l’edizione in lingua italiana, rivela le fondamenta della nostra realtà post-linguistica senza alcuna soluzione d’identità a Est come a Ovest, a cavallo dei confini religiosi pretesi dal neo-orientalismo imperiale. Gli squarci delle città siriane, violate fin dagli anni ’50 a colpi di urbanistica del controllo, la stessa imposta alle città europee, mostrano che a essere pericolante è in realtà l’intera struttura della nostra civiltà. Abbiamo smesso di costruire le nostre città, i cui sviluppi piuttosto subiamo come metastasi, perché non costruiamo più linguaggio. Questo ha aperto le porte all’abisso.

È una rivelazione fulminante. La battaglia per dar vita alla nuova economia, alla nuova politica dell’oikos, alla biourbanistica, è cominciata. Ex oriente – filtrando fra le crepe – lux.