L’ideologia dell’occidentalismo euro-americano tende a recidere i nessi che hanno legato il modellarsi della cristianità tradizionale alle sue radici mediterranee e orientali. Il primato del Settentrione continentale e delle potenze del Nord Atlantico ha oscurato la lunga fase di incubazione in cui si è continuato a guardare di più verso Sud e in direzione degli sbocchi sul “mare interno” del Vecchio Mondo. La fisionomia stessa dell’Europa, così come la concepiamo noi oggi, ha subito questo drastico processo di restringimento, decentrandosi dal suo cuore antico, riducendo fin quasi all’inconsistenza i debiti contratti con la prestigiosa eredità greco-ellenistica, con i lasciti ingenti del vicino Oriente ebraico e del più vasto contesto arabo-persiano poi in larga parte islamizzato, promotori di un grandioso transfert di civiltà favorito dalla dispersione delle loro élites intellettuali già ben prima dell’avanzata turco-musulmana, resa dilagante e a prima vista inarrestabile con la caduta di Bisanzio nel 1453.
Allo stesso modo non è ragionevole trascurare l’intensità dei rapporti a lungo intrattenuti, in modo particolare nel contesto iberico, con la galassia di realtà proteiformi edificate sulla costa nordafricana dopo la liquefazione dei potenti innesti latini e protocristiani, quanto meno fino alle soglie della piena età moderna (e ancora più tardi, secondo logiche in larga parte mutate, nell’età delle dominazioni coloniali).
Pensando a tale genere di premesse, non si può non riconoscere l’effetto di una censura deformante nel concepire una tradizione europea che non sia (anche) figlia del robusto meticciato storico-culturale introdottosi fin dal suo inizio, da un estremo all’altro dell’ormai disgregata Romanità, nel cammino di costruzione da cui è scaturita, come esito conclusivo, la nascita della nostra contemporaneità. Consente di rimettere seriamente in discussione questa impostazione la storiografia più recente, che getta nuova luce sulle dinamiche basilari del cantiere di sviluppo della modernità “occidentalizzata”, osservandole nei loro agganci con il contrafforte più meridionale dei bastioni su cui essa ha stabilito le sue fondamenta.
Ciò che si guadagna è la possibilità di chiarire quanto le realtà del continente europeo siano riuscite a fare tesoro degli apporti del loro retroterra mediterraneo nei secoli centrali del secondo millennio, distendendo sulle cornici di terre che lo delimitavano e sulle isole che ne punteggiavano i collegamenti navali la ragnatela di un sistema di interconnessioni attraverso cui uomini, soldati, merci, idee e beni culturali diventavano le pedine di un puzzle suscettibile di assumere le configurazioni più fantasiosamente declinate in sensi molteplici.
Il Mediterraneo è sempre stato un grande spazio aperto, di incontro e confluenza tra tante entità diverse che sono state spinte a condividere i loro destini. Sulla vasta pianura liquida si sono intrecciati fin dalle epoche più remote i percorsi disegnati dalla mobilità dei gruppi umani. Ne sono stati nutriti i flussi di una trama fittissima di scambi e relazioni, dispiegati su una gamma che dall’osmosi e dall’integrazione reciproca poteva giungere fino al dissidio più aspro provocato da identità in espansione che puntavano a fagocitare l’altro da sé, piegandolo a una volontà di dominio generatrice di squilibri e rapporti di subordinazione difficili da scardinare. In diverse circostanze, opposte strategie egemoniche potevano anche confliggere tra loro, facendosi concorrenza. Si bilanciavano con tatticismi di ogni genere. Puntavano a logorare ai fianchi la parte avversaria, non esitando ad aggredirla nel momento in cui si profilava la possibilità concreta, o magari soltanto l’acceso desiderio di qualche sensibile profitto.
La multipolarità, in ogni caso, era la regola di fondo: nel senso che le molteplici cellule territoriali, a base etnica, nazionale, linguistica, culturale, socio-politica, religiosa, distribuite intorno ai bordi dell’universo marittimo non potevano ignorarsi a vicenda. Si confrontavano e interferivano l’una con l’altra, anche da lontano. Negoziavano sui nodi controversi quando entravano in contatto. Creavano incroci, mescolanze, oppure repulsioni e divaricazioni bellicose, arrivando a scontrarsi nel momento in cui la contrapposizione degli interessi e dei punti di vista sugli assetti da dare alla coesistenza in uno spazio comune degenerava in frattura inconciliabile.
Tra fine Quattrocento e inizi del Cinquecento, le tensioni da tempo accumulate sullo scacchiere circummediterraneo esplosero con esiti dirompenti. Ai contrasti politici e ai conflitti religiosi che minavano la coesione interna della cristianità si univano le insidie esterne, addensate in particolare ai suoi confini orientali. Da qui l’ombra della Mezzaluna si proiettava sugli specchi di mare un tempo teatro degli incroci che avevano forgiato le impalcature della civiltà del mondo antico. Lungo le rotte di quello che era stato il mare nostrum di un variegato coacervo cosmopolita si lanciavano senza sosta le squadre navali dei potentati barbareschi delle coste maghrebine, protagonisti di un complicato gioco di sponda con il parallelo espansionismo dell’Impero ottomano.
Entrambi questi organismi, con la loro ben diversa forza di impatto, erano accomunati in un’ambiziosa impresa di incapsulamento dell’area che era stata per secoli la culla dell’ecumene bizantina, dove entravano in urto con le formazioni politiche nate dalla progressiva dilatazione, nei secoli anteriori, dei distinti nuclei della dominazione araba. Le spinte conquistatrici della Sublime Porta intaccavano inesorabilmente le posizioni guadagnate da veneziani e genovesi nelle isole e sulle sponde dell’Egeo. Avevano inoltre costretto a ripiegare su teste di ponte meglio difendibili l’ordine dei cavalieri di San Giovanni, che fece di Malta il suo nuovo avamposto in mezzo al mare. Avanzando dalle retrovie, i turchi e i loro alleati nordafricani tenevano sotto tiro i prìncipi cristiani, papa compreso, che avevano il controllo di tutto il quadrante continentale affacciato al Mediterraneo sulle sue frontiere nordoccidentali.
A subire il logoramento di uno stillicidio continuo, incline a farsi spesso voracemente aggressivo, era un ventaglio di Stati sovrani che dai detentori delle riunificate corone di Spagna andava fino ai principati signorili e alle repubbliche magnatizie della penisola italiana e, lasciando più sullo sfondo il regno di Francia, giungeva a includere, a est, gli Asburgo d’Austria: la potenza di primo piano dell’intero comparto germanico-danubiano, che dalle terre del Sacro Romano Impero e dalla cintura dei suoi indocili vicini ungheresi, boemi, polacco-lituani si proiettava con estese ramificazioni verso i popoli slavi del Sud, mirando a inglobare sotto il suo mantello una periferia balcanica invece risucchiata, in senso contrario, nella morsa delle conquiste turche, che imponevano radicali trasformazioni, su ogni versante della vita collettiva, ai popoli sottomessi agli Infedeli.
In questo quadro di marcate pressioni destabilizzanti, alimentatrici di paure, di incertezze e bisogni di rivalsa contro una forza ostile capace di infiltrarsi in ogni spazio di intercomunicazione e di avvolgere con i suoi tentacoli le prede delle proprie ambizioni di crescita, continuava a esercitare una potente suggestione il mito della crociata per la difesa della cristianità e la riconquista delle terre perdute. Lo rilanciarono i più grandi intellettuali dell’umanesimo rinascimentale e le corti dei sovrani laici non meno che le più alte autorità delle Chiese cristiane, fino alla fine del Seicento e ancora oltre. Speculare alla chiamata alle armi in nome dell’ideale politico-religioso cristiano era, in prospettiva capovolta, l’etica militaresca della lotta a oltranza della “guerra santa” per la conversione della società umana alla rivelazione dell’islam.
Ma le spaccature profonde che si creavano e persino il ribollire delle pulsioni più violentemente sanguinarie, refrattarie allo spirito di compromesso e agli sforzi di adattamento reciproco, non possono far dimenticare che lo scontro e la volontà spietata di vittoria senza condizioni non sono stati gli unici frutti conosciuti dal confronto con il diverso da sé. Lepanto e l’assedio di Vienna non esauriscono lo scenario della dialettica innescata dal corpo a corpo tra identità antagoniste.
(1 – continua)
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