La storia politica siciliana dell’ultimo mezzo secolo è stata spesso un laboratorio che ha anticipato scelte nazionali e che ha favorito la formazione di personalità di grande spessore politico ed umano, come l’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella. Ma essa è anche una matassa difficile da districare, popolata sia di eroi e innovatori che hanno pagato, talora anche con la vita, per le proprie scelte, sia di personaggi contigui ad ambienti mafiosi, adusi a elargire favori in cambio di sottomissione.
Il diario politico fresco di stampa di Calogero Pumilia, un esponente siciliano per cinque legislature deputato Dc e più volte sottosegretario (C. Pumilia, La caduta, Rubbettino 2020), ci aiuta a esplorare questa storia, soprattutto nel periodo 1972-1994, che segnò l’ultimo ventennio dei partiti tradizionali dell’Italia repubblicana.
Nella vicenda della Dc siciliana di fine Novecento troviamo anche uomini della vecchia guardia adusi a venire a patti con Cosa nostra e deputati, come il nisseno Calogero Volpe, che si vantavano perché nel loro territorio dominato dalla mafia da anni non c’era un fatto di sangue: “e noi – sosteneva l’on. Volpe – dormiamo con le porte aperte”.
La lettura dei fatti si presenta più complessa quando ci troviamo di fronte ad esponenti del rinnovamento Dc che hanno giocato un ruolo di primo piano anche nelle vicende nazionali. La loro azione seguita con simpatia dall’opinione pubblica è stata però, talora, interrotta o dall’intervento sanguinoso della mafia o dal “fango” dell’informazione complottista o dalle indagini di magistrati, innescate da accuse non sempre confermate dalle prove (come dimostra la recente sentenza di assoluzione pronunciata dalla Cassazione su Calogero Mannino).
Pumilia, cresciuto nella sinistra Dc vicina al sindacalismo bianco, ci introduce in un mondo variegato, in cui i partiti avevano ancora ideali programmatici, sezioni territoriali, scuole di formazione dei gruppi dirigenti e, per dirla con Aldo Moro, erano immersi nel popolo “fino a creare quella sorta di immedesimazione, quella corrente di fiducia che conduce le masse ad essere elemento potente, ma ostinato, della vita dello Stato”.
Nel ventennio 1974-94 la politica ha dovuto fare i conti con due sfide epocali: il terrorismo, che ha colpito molti uomini delle istituzioni ed è culminato con l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, e il contrasto al potere mafioso, che ha conosciuto in quel periodo il primo maxiprocesso alla mafia con conferma delle pene in Cassazione nel 1992.
In questi anni un tema dominante è stato il rinnovamento della politica e dei partiti, che soprattutto in Sicilia ha conosciuto forme e vie diverse all’interno della Dc, del Pci e del Psi. Da un lato – e qui ci riferiamo in particolare alle vicende interne alla Dc – esso ha significato la ricerca di una politica con le carte in regola che introducesse trasparenza nella burocrazia e ridesse efficienza ai passaggi attuativi delle leggi (vedi l’azione del presidente della Regione Piersanti Mattarella, assassinato dalla mafia il 6 gennaio 1980). Dall’altro esso ha portato alla ricostruzione del partito con forme e progetti innovativi (l’era di Calogero Mannino segretario regionale e Rino Nicolosi presidente della Regione). Nell’ultima stagione, quel rinnovamento è passato per un abbandono della Dc e per la fondazione di un movimento – la Rete di Leoluca Orlando – propenso a rivolgersi direttamente al popolo.
Restano, tuttavia, alcuni nodi irrisolti nelle vicende dei “rinnovatori” siciliani. Essi, infatti, si sono ritrovati a dover superare gli ostacoli frapposti dagli interessi illeciti di tipo mafioso o dalle pastoie burocratiche. Piersanti Mattarella, per esempio, pagò con la vita la sua intuizione, rivoluzionaria in quel contesto, secondo cui si può governare solo se alle scelte politiche di indirizzo segue un’adeguata attuazione amministrativa. In quegli anni vi fu anche chi – per superare le lentezze delle mediazioni e delle spartizioni a livello correntizio e partitico – creò un “governo parallelo” che accelerò la spesa, incrementò l’efficienza, ma scavalcò l’Assemblea regionale e, in alcuni casi, degenerò in una forma di gestione privatistica delle risorse pubbliche.
Se Piersanti Mattarella è l’eroe della trasparenza, che paga con la propria vita la coerenza con l’idea sturziana di una politica al servizio del popolo, Rosario Nicoletti, segretario regionale democristiano dal 1973 al 1982, è l’emblema del dilemma Dc in Sicilia. Nicoletti fu un rinnovatore in politica, tanto da favorire l’estromissione di Vito Ciancimino dalle liste Dc del Comune di Palermo e la svolta di Piersanti Mattarella alla Regione. Ma, in quanto segretario regionale Dc, non sfuggì alle accuse di fiancheggiamento della mafia. “Nicoletti – scrive Pumilia – visse con angoscia un’accusa che riteneva ingiusta e che contribuì a devastarne l’equilibrio mentale”. Così quando Nando Dalla Chiesa lo indicò addirittura come uno dei possibili mandanti morali dell’assassinio mafioso del padre, Nicoletti – personaggio intelligente e sensibile – ebbe un crollo psicologico che lo portò a togliersi la vita.
E qui arriviamo a un altro passaggio importante. La vicenda degli ultimi 20 anni della Dc, che conobbe il suo epilogo nel gennaio 1994 a seguito della bufera di Tangentopoli, piuttosto che dagli storici, è stata narrata “sub specie mafiae” dalle inchieste giudiziarie e dalle ricostruzioni giornalistiche. Ed è singolare che ancora oggi molti continuino a leggere i passaggi nodali dello Scudocrociato nell’Isola dagli anni Settanta al ’94 solo attraverso le indagini della magistratura.
Se si eccettua, infatti, il lodevole tentativo dell’Istituto Sturzo di Roma e del Centro “Cammarata” di San Cataldo di salvare il salvabile degli archivi democristiani dell’Isola (si veda il prezioso volume a cura di M. Gentilini e M. Naro, Le memorie democristiane, Salvatore Sciascia editore 2005), poco è disponibile del materiale archivistico, a partire dagli atti dei congressi e delle direzioni regionali dello Scudocrociato. In questa prospettiva il saggio di Pumilia ci spinge – come nota anche il giurista Giovanni Fiandaca – a superare un modello di ricostruzione storica “complottistico da neo-romanzo d’appendice” (come, per esempio, tutta la vicenda politico-giudiziaria di Giulio Andreotti ampiamente documenta) per approdare, invece, a una ricostruzione dei fatti rispettosa della verità storica e del sacrificio di quanti in politica hanno servito la Sicilia in quegli anni.