Occorre valutare il mondo in cui viviamo per maturare come esseri umani ed essere liberi. Meglio valutare sbagliando nei giudizi che non valutare. Sempre che uno sia disposto a lasciarsi provocare dal giudizio degli altri e a modificare così, quando necessario, la sua valutazione. In altri termini: non possiamo evitare la scelta fra una concezione della realtà come estranea o addirittura ostile, da un lato, o come occasione di maturazione umana dall’altro.



Dal momento che assistiamo da tempo al più imponente e veloce mutamento tecnologico, culturale e umano della storia sarebbe impossibile non sbagliare in nessun modo. Inoltre valutare non significa giudicare nel senso della condanna. Occorre, invece, cercare di formulare sempre un giudizio che indichi una strada di maturazione possibile, pur rilevando, quando necessario, ciò che va contro l’uomo.



Gettando uno sguardo sugli ultimi decenni a partire dal Sessantotto, si deve riconoscere che dalla speranza nella rivoluzione ovvero in un mutamento radicale dell’uomo si è passati in pochi anni alla piena vittoria del neocapitalismo, del consumismo e delle nuove tecnologie. Ma di questa vittoria e della sua incidenza su noi stessi e non solo sugli altri non si è preso adeguatamente coscienza da parte di tutti e, in particolare, da buona parte del ceto intellettuale e politico, il quale spesso ha difeso battaglie sui diritti che la diffusione del consumismo e del benessere avevano evidenziato e reso possibili, ma spesso senza scorgere anche i limiti presenti nella nuova situazione. In questo senso certe analisi marxiste della società come quelle degli autori della Scuola di Francoforte da Max Horkheimer a Eric Fromm, possono essere ancora attuali e vanno riprese, come in parte già avviene, anche se è difficile aderire alle terapie marxiste dopo la crisi del Sessantotto e la fine del comunismo realizzato.



Il giudizio sulla cosiddetta società dei consumi e della globalizzazione, sulle nuove tecnologie e sulla nuova condizione umana in continuo mutamento non può che essere sfumato, cosciente delle ambiguità della storia. Si tratta di tener conto di quella critica al “perfettismo”, all’utopia in ambito politico, di cui il populismo è una delle possibili espressioni, e che il pensiero critico non può non fare propria.

Occorre riconoscere, da un lato, che sono emerse nuove esigenze e nuovi diritti che un passato di miseria, privazioni, assenza di democrazia e ignoranza sul piano scientifico aveva sopito e non permesso di vedere. Ma occorre riconoscere, dall’altro, che si sono pure censurati aspetti di mercificazione della vita che il consumismo indubbiamente favorisce in tutti, anche in chi lo critica, e che si manifestano, per esempio, in una più accentuata omologazione culturale e nel trattare con un linguaggio inadeguato tematiche delicate riguardanti l’inizio vita.

Talvolta la coscienza di un certo bene fa dimenticare il male. Come osserva Simone Weil, non basta essere stati feriti gravemente nella propria dignità o magari pensare di esserlo stato, per avere ragione quando si valuta il nostro tempo e si prende posizione. Occorre un’attenzione, un giudizio che sappia distinguere fra bene e male. Del resto non è strano che nelle cose umane essi siano intimamente mescolati come il grano e la zizzania della parabola evangelica.

A maggior ragione i cristiani oggi sono chiamati a valutare. Hanno con sé la forza di una tradizione, ovvero di un’esperienza consolidatasi nei secoli che permette loro di valutare, ma anche di relativizzare gli avvenimenti del nostro tempo. La tradizione, tuttavia, non può essere mai usata come invito a non tener conto delle urgenze e delle provocazioni che il presente fa continuamente emergere. Anzi essa deve permetterlo, insegnando come altri in passato abbiano fatto fronte pur con diverse modalità alle urgenze del loro tempo.

Ma come fare a non essere disincarnati e a guardare in faccia la realtà? Occorre ripensare l’uomo e la sua libertà. Può essere utile a questo proposito leggere il volume di Mattia Ferraresi uscito pochi anni fa e centrato sull’individualismo e la solitudine che contraddistinguono il nostro tempo (Solitudine. Il male oscuro delle civiltà occidentali, Einaudi 2020). Esso riprende spesso due classici come La democrazia in America di Alexis de Tocqueville e Fuga dalla libertà di Eric Fromm, mostrandone l’estrema attualità. L’autore sottolinea che non si può mai isolare la libertà di scelta, pur fondamentale, ma oggi spesso esaltata in maniera unilaterale, finendo per rendere l’individuo fragile e in balia della società. L’uomo, infatti, strutturalmente dipende sempre da ciò in cui ripone la sua speranza. Ed egli non può non sperare. Il problema è allora: da cosa dipende? O meglio, da chi dipende? Insomma: “Che amici abbiamo?” si chiedeva Hannah Arendt.

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