La storia della nostra Repubblica è stata segnata da stragi, poteri occulti e nodi mai sciolti. Giovanni Spinosa e Michele Mengoli ne La Falange armata. Storia del golpe sconosciuto che ha ridisegnato l’Italia (Piemme, 2022) affrontano uno tra i capitoli più oscuri e cruenti della storia repubblicana, quello delle stragi dal 1984 (attentato di Natale al Rapido 904) al 1994. Il loro lavoro nasce dall’esperienza sul campo di Spinosa, giudice istruttore e membro della Direzione distrettuale antimafia di Bologna e dalla competenza nei fatti di Mengoli, attento conoscitore delle tormentate vicende di quegli anni. Nel loro lavoro comune, gli autori esaminano una mole impressionante di fatti con metodo logico e critico. Il libro ricostruisce, perciò, con una voluminosa documentazione i diversi snodi delle violenze contro lo Stato e i cittadini inermi: la Banda delle Coop e il Consorzio eversivo, i delitti della Uno Bianca, la militarizzazione del territorio, le stragi in Sicilia, gli attentati fatti dai traditori della patria, la pacificazione falangista.
La Falange armata, dal quadro delineato con dati alla mano, non era una banda di millantatori e fanfaroni o una sigla di comodo per coprire attentati mafiosi. Grazie all’attenta analisi delle diverse rivendicazioni, infatti, emerge un’altra realtà ben più inquietante. La Falange armata era, infatti, un gruppo eversivo con fini precisi e con un disegno strategico di fondo. Il progetto eversivo, secondo gli autori, prese corpo, curiosamente, dopo la crisi di Sigonella. In quella circostanza la politica italiana aveva dimostrato capacità e volontà autonome, ribadite da Andreotti con le rivelazioni su Gladio (1990) e da Scotti con la sua azione decisa contro la mafia.
Ecco dunque la necessità di colpire “il cuore di questo Stato putrescente, le sue istituzioni e rappresentanti, in primo luogo i suoi uomini, i suoi simboli, le sue cose”. Nei gesti criminali, perciò, troviamo delle ricorrenze. In diversi delitti, non solo quelli dei fratelli Savi, venne usata la Uno Bianca. Furono utilizzate, spesso, le stesse armi, quasi a lasciare una firma, e talvolta furono eseguiti omicidi apparentemente senza senso, per terrorizzare la collettività. Inoltre, l’organizzazione colpì con vile crudeltà diverse volte uno tra i simboli più importanti dello Stato: i carabinieri. Si pensi alla strage del Pilastro oppure alle uccisioni e ferimenti di militi dell’Arma in Calabria o al fallito attentato all’Olimpico contro la folla e la Benemerita con un’autobomba in viale dei Gladiatori a Roma.
Il piano dell’organizzazione anti-italiana viene messo in rilievo in tutta la sua entità dalla strage golpista di Capaci. Gli autori fanno notare, a tal proposito, alcune impressionanti analogie con la morte di Luis Carrero Blanco, ucciso dai terroristi dell’Eta nel 1973. Sia nell’attentato al successore di Francisco Franco che a Capaci l’esplosivo fu stipato in uno stretto cunicolo sotto il livello stradale. Tale stratagemma, usato nelle due azioni terroristiche, favorì la potenzialità espansiva dell’esplosione, rendendola ancora più devastante. In entrambi i casi il diabolico disegno criminale fu caratterizzato da una meticolosa e ingegneristica pianificazione, da una catena di personaggi con ruoli precisi e da una capacità tecnico-esecutiva impressionante. Un’azione di livello militare nella competenza, nell’efficacia, nel tipo e uso dell’esplosivo.
Nella strage di Capaci vi sono poi altri punti oscuri che rimandano alla Falange. Un aereo con elica centrale sorvolò per oltre un’ora a bassa quota Capaci, visto da un testimone. A 60 metri dal cunicolo furono rinvenuti guanti di lattice con tracce attribuibili a uno o due soggetti di sesso femminile.
Curiosamente, anche nelle stragi del 1993 fu segnalata la presenza di donne, cosa del tutto incompatibile con la mentalità mafiosa. E inoltre Antonino Gioè, secondo Paolo Bellini di Avanguardia Nazionale che lo aveva incontrato, era a conoscenza di rapporti tra mafia e soggetti esterni: politici ed esteri. Da un cellulare fantasma dei mafiosi, infatti, dopo l’attentato di Capaci partirono ben tre telefonate verso il Minnesota. Gioè, inoltre, “prima che fosse suicidato in carcere” proprio il giorno dopo le stragi di Milano e Roma, scrisse una strana lettera in cui scagionava lo ndranghetista Domenico Papalia, elemento di raccordo tra diversi poteri torbidi e mandante del primo omicidio attribuito alla Falange armata, quello contro l’educatore carcerario Umberto Mormile. Mormile, peraltro, sarebbe stato ucciso, secondo le acquisizioni più recenti, per avere visto strani incontri tra detenuti e uomini delle istituzioni deviate.
Si tratta dunque di elementi complessi e gravi di destabilizzazione e sovversione della democrazia italiana su cui l’inchiesta “ndrangheta stragista” a Reggio Calabria ha fatto vedere delle luci. Ancora, tuttavia, c’è tanto da fare per giungere alla verità storica e per onorare le vittime. Non possiamo, perciò, dimenticare l’annus horribilis, cioè il 1993, in cui secondo Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato e Giorgio Napolitano fummo vicini a un colpo di Stato contro le istituzioni democratiche. Il centro di Roma, infatti, fu isolato da un blackout telefonico nella notte tra il 27 e il 28 luglio, dopo l’esplosione delle bombe a Roma e Milano (un blackout identico si verificò durante la strage di via Fani e un altro fu prodotto a Bologna durante l’eccidio dell’armeria del 1991).
La vicenda drammatica che ha avuto come infausta protagonista la Falange sembra messa nel dimenticatoio, ma è necessario, invece, ricordarla, per capire l’oggi. I tanti aspetti incomprensibili di un periodo drammatico, tuttora nascosti in zone d’ombra, sono attraversati da una certezza ultima. La nostra povera patria vive in una storia che, come ricorda Eduardo Galeano citato dagli autori, non è muta e “per quanto la falsifichino, la storia umana si rifiuta di stare zitta”.
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