Fin dall’alba dei tempi gli uomini hanno raccontato storie cercando di spiegare le cause e le origini del mondo attraverso miti, favole e leggende. Davanti alla vertigine delle cose l’uomo, parte viva della coscienza collettiva di un popolo, ha sempre avuto il bisogno di ascoltare storie da una voce narrante che parla alla voce più profonda di sé, a quel “fanciullo” che, ricorda Pascoli, “tiene fissa la sua antica serena meraviglia” nell’uomo adulto, sopraffatto dalle vicende dell’esistenza. Quella voce che vive nella coscienza di ognuno cerca al principio di tutto la meraviglia, quello thaumàzein che Platone nel Teeteto indica come archè della filosofia: “È proprio tipico del vero filosofo provare questo pathos, la meraviglia. Infatti non c’è altro principio della filosofia che questo” (Platone, Teeteto 155d)



Non ci sorprenderà allora, nel leggere l’Iliade o l’Odissea, di rimanere immersi nel fascino primigenio delle narrazioni di Omero – ben più antiche del moderno storytelling – con la vis cinematografica delle sanguinose battaglie tra Greci e Troiani o la freschezza immaginativa di certe similitudini marine. Oppure di riconoscere ancora oggi nelle favole morali di Esopo una geniale capacità di rappresentare l’uomo, il suo carattere e la sua complessa psicologia.



Ancora oggi ci vengono in soccorso i poeti, la loro immaginazione capace di cantare attraverso le parole, come scrive Franco Loi, il destino nascosto in ciascuno di noi: “El mè destin l’è amô nascost in mí, / ché amô g’ û de cüntà quèla mia fravula / che l’è la vita che se spèggia in mí” (Il mio destino è ancora nascosto in me, / ché ancora devo raccontare quella mia favola / che è la vita che si specchia in me) (F. Loi, Isman, Einaudi 2002, p. 68).

Un’inedita “favola filosofica” di Loi, recentemente scoperta tra le carte del poeta, viene ora pubblicata dalle raffinate edizioni San Marco dei Giustiniani, a cura di Paolo Senna (Franco Loi, La Torre, con disegni originali di Guido Zibordi Marchesi, Edizioni San Marco dei Giustiniani 2020). La favola, destinata inizialmente ad una ristretta circolazione familiare (i dattiloscritti originali presentano vari disegni eseguiti dai figli del poeta, all’epoca bambini) risale alla fine degli anni Settanta, ossia nel pieno dell’attività poetica di Loi, che esordisce con le prime poesie sulla rivista Nuovi Argomenti (1971) e successivamente con i volumi I cart (1973), Stròlegh (1975) e Teater (1978).



La Torre viene ora riproposta corredata dalle splendide illustrazioni di Guido Zibordi Marchesi, che accompagnano il lettore a perdersi in un mondo dai contorni onirici, come avverte Senna nella sua introduzione: “Un Principe, ignaro di sé e del mondo che lo circonda al limite dell’indifferenza, giunge in un borgo vivace di colori, ma abitato da esseri umani stigmatizzati in azioni meccaniche che sembrano condurre l’esistenza secondo un monotono rituale. È un borgo incantato sormontato da una torre dove, come in sogno, gli oggetti si alternano, scompaiono, e dove i rapporti temporali e spaziali tra gli avvenimenti e le cose non seguono del tutto le leggi fisiche” (p. 13).

Il viaggio del Principe attraverso questo borgo corrisponde ad un cammino di formazione in cui il protagonista, sfidato da un corvo nero a risolvere tre enigmi (legati al senso dello spazio, del tempo e della vita) giunge ad intuire l’esistenza di un Dio, rifiutato dagli uomini o imprigionato nello spazio angusto delle loro immagini: “Il corvo teneva il capino nel collo gonfio come fanno i colombi. – Ciò che la mente ignara, sa il cuore… – Il cuore… Il corvo ridacchiò come un merlo: – Il cuore vede ciò che gli fa piacere… La verità lo stanca, e fugge, il cuore, dalla paura… Dal tetto sembrava proprio un merlo che fischiasse. – Il cuore fa il cuore. Non sbaglia per se stesso, ma per i progetti della mente – protestò il Principe, e aggiunse amaramente: – Voi siete prigionieri delle vostre maschere. Aveva creduto, per un attimo, che i molti occhi del corvo s’annidassero” (pp. 85-86).

Chi conosce la poesia di Loi sa quanto la questione di Dio, intimamente connessa al tema dell’esperienza contrapposta all’ideologia, sia vitale per la sua scrittura. Essa nasce infatti dall’ascolto di sé e del mondo, da quell’inconscio che fa scaturire parole e suoni, come possiamo leggere in una delle più celebri liriche di Memoria (Boetti & C. 1991): “Di Dio sono matto, si strappa la coscienza. / Vado in giro, lo penso, me lo rimugino, e vado. / E più lo penso, e più gli sono lontano. / Dio è scherzoso… È come fa la luna, / ché i miei pensieri sono nuvole, e lui si nasconde. / Così mi distraggo, parlo con gli uomini, / e matta è la luna, chiara luneggiante, / con la sua luce che scivola nella notte”.

Così in La Torre il Principe, miracolosamente scampato a un sacrificio in cui il boia si trasforma in oleandro, pronuncia parole che – dietro il velo della narrazione fantastica – ci fanno intensamente riflettere sulle astuzie del potere e del nichilismo: “questa astuzia, che come la pietra risuona, troppo rapida per i nostri occhi, in un gioco che noi respiriamo, e circola nel sangue e muta i nostri pensieri, ci trasforma sensibilmente nelle forme che ci piace altri vedano… – Forse Dio è fuggito! – gridò qualcuno in piazza. – È fuggito! – gridarono. Il corvo si lisciò soddisfatto le penne strappate, sull’ultima nuvola su cui si era fermato; doveva riflettere. – L’hanno cancellato dalla faccia della terra e del cielo – riprese il Principe. – L’hanno sotterrato come un passero morto…” (p. 95).

“Non la mente giudica di Dio, ma il vostro cuore…” afferma ancora il Principe in una delle pagine conclusive de La TorreEd è proprio qui che assistiamo ad una svolta, a un’imprevista metamorfosi. Il Principe-poeta, un tempo straniero e “indifferente a tutto”, ora guarda il proprio cuore e quello degli uomini, tentando di dire “cose nascoste nel cuore di tutti”. All’apparire di una nuova aurora tutte le cose mutano colore, la gioia torna ad illuminare le umane tenebre. E Loi, poeta dell’aria, affida quest’ultima scena a un vento leggero che scende a trasformare le parole e il mondo degli uomini, investendoli della sua luce: “Le parole del Principe erano farfalle: una azzurra, improvvisa, uscì da una finestra, un’altra dolce e pallida all’erba soffice: erano parole di tutti e a sciami, come pulviscoli, apparivano nella luce del giorno” (p. 99).