La vicenda, ancora aperta, della tassa sugli extraprofitti delle banche si presta a tutta una serie di riflessioni, non solo di carattere strettamente politico. C’è infatti un aspetto importante che è solo in parte è stato messo in luce dai commenti della prima ora: è l’aspetto degli effetti indiretti che la nuova imposta ha portato e porterà con sé, effetti che tuttavia vanno sicuramente al di là di quelle che sono le aspettative razionali e le conseguenti decisioni degli operatori economici.



L’effetto diretto di una nuova imposta è quello di fornire un gettito aggiuntivo all’erario, ma a questo bisogna aggiungere anche la modifica dei comportamenti delle persone e delle imprese di fronte a un costo aggiuntivo non previsto. Si tratta di due livelli strettamente connessi: nel caso concreto dell’ultimo decreto, se è facile valutare il gettito sulla base dei conti del passato (dato che si va a colpire i maggiori redditi sulle commissioni conseguiti dalle banche nel 2022) non è per nulla scontata la possibilità di quantificare i redditi per il 2023 e soprattutto per il 2024 dato che è del tutto verosimile che le banche possano decidere di modificare la propria strategia di gestione.



Ecco allora un primo elemento di incertezza a cui si possono aggiungere altri effetti, forse meno immediati, ma probabilmente ancora più rilevanti. Il nuovo decreto, per esempio, applicando una nuova imposta su redditi già conseguiti, viola uno dei principi giuridici fondamentali, quello della non retroattività delle norme. In pratica viene meno la certezza del diritto, cioè il fatto che una persona o un’impresa possa essere tenuta a un’obbligazione solo sulla base delle regole in vigore quando viene compiuta una determinata azione. Tra gli elementi negativi della nuova tassa non si possono poi sottovalutare gli aumenti dei costi da parte delle banche, costi che saranno inevitabilmente riversati sulla clientela, così come la creazione di una disparità di trattamento tra gli stessi istituti di credito.



Tutte queste considerazioni, legate a un fatto di stretta attualità, possono tuttavia dimostrare molto bene come l’economia sia una scienza complessa, una scienza che deve rispettare le leggi della fisica o della matematica (“a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”), ma alle quali si deve aggiungere il fattore umano, un fattore che affianca alla ragione elementi come l’intuizione, le emozioni, le aspettative, il pessimismo o l’ottimismo. E in cui, come insegna Hayek, agli effetti intenzionali bisogna aggiungere quelli preterintenzionali, imprevedibili e incalcolabili.

A questo proposito è interessante notare come all’interno della storia dell’economia vi siano stati alcuni passaggi rilevanti che hanno allargato e nello stesso tempo approfondito l’ambito di osservazione. Tra questi va annoverata la cosiddetta “scuola di Chicago”, la cui importanza va ben al di là della semplice patente di neoliberismo con cui viene normalmente giudicata. Lo spiega molto bene il libro di Nicola Giocoli (La scuola di Chicago, Ibl libri 2023) in cui l’autore, ordinario di economia politica all’Università di Pisa, mette in luce la varietà di interessi e di prospettive che hanno contraddistinto i lavori non solo dei “grandi” come Milton Friedman e Gary Becker, ma anche di una lunga serie di accademici che da Chicago hanno tratto motivazioni per i loro studi.

Appaiono così importanti gli approfondimenti sull’analisi economica del diritto, le teorie sul capitale umano, l’approfondimento delle variabili monetarie, così come la necessità di affiancare all’analisi teorica la verifica empirica degli effetti delle decisioni dei singoli e della politica. È significativo come in conclusione del libro, per offrire una sintesi della lezione della scuola, si riporti una frase di Milton Friedman: “Nel discutere di scienza economica Chicago significa un approccio che prende seriamente l’uso della teoria economica per analizzare un insieme sorprendentemente ampio di problemi concreti […] che insiste nel testare empiricamente le generalizzazioni teoriche e che respinge allo stesso modo i fatti privi di teoria e la teoria priva dei fatti”.

In breve, commenta Giocoli, “ciò che rende la Scuola sempre attuale è semplicemente la ferma convinzione che l’economia sia uno strumento incredibilmente potente per analizzare e capire la società”.

Verificare, approfondire, divulgare: regole di metodologia delle scienze sociali che dovrebbero essere ampiamente condivise. Sulle teorie e sulle interpretazioni, per esempio sull’impostazione neoliberista, la discussione non solo può, ma deve essere aperta. Magari senza i pregiudizi di chi alla prova dei fatti preferisce i facili schemi dell’ideologia. E di chi ritiene, com’è avvenuto nell’esempio citato all’inizio, che le scelte politiche possano non fare i conti con la complessità dell’economia e delle reazioni delle persone.

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