Nella Storia della filosofia russa uscita a Parigi nel 1950 il filosofo e pensatore Vasilij Zen’kovskij scriveva: “In Losev il pensiero filosofico russo ha manifestato una forza del dono, una finezza di analisi e una capacità di meditazione intuitiva tali da confermare senza dubbio la rilevanza del percorso filosofico tracciato per la prima volta e con profonda chiarezza da Vladimir Solov’ev”.
Il giudizio di Zen’kovskij ben colloca nella storia della filosofia il cammino intrapreso da Aleksej Losev (1893-1988), filosofo, teologo, esteta, filologo classico, teorico musicale e anche prosatore, figura chiave della cultura russa del Novecento, protagonista di un’epoca tanto ricca quanto profondamente travagliata. Attento alla filosofia neoplatonica e neokantiana, debitore dell’insegnamento husserliano, nei suoi numerosi scritti Losev offre una visione caleidoscopica della creazione artistica e filosofica: indaga la dimensione del simbolo e del mito, approda a un’inedita riflessione sul Rinascimento, esplora lo spirito della musica in un’ottica vicina, ma complementare a quella dei simbolisti teurgici.
La “suprema sintesi” – vysšij sintez, termine caro al giovane Losev – rimane il principio fondamentale della sua idea di mondo filosofico, ma anche di una vita umana sempre mirante all’arte, alla bellezza, alla musica. In un appunto di diario Losev annota: “C’è un’unica conoscenza, un unico spirito umano indissolubile. […] Volete essere un filosofo? Per far questo occorre essere un uomo…”.
Nella prima metà degli anni Venti Losev lavora con intensità a molti contributi che tuttavia non può pubblicare. La sua Filosofia del nome (1927) è pronta nel 1923, Il cosmo antico e la scienza contemporanea (1927) nel 1925 e alcuni capitoli-articoli di La musica come oggetto della logica (1927) vengono terminati nel 1920-1921 e poi nel 1924 e 1925. Professore al Conservatorio di Mosca e dal 1923 al 1930 membro dell’Accademia statale delle scienze artistiche, Losev partecipa attivamente alla vita culturale e filosofica della capitale e la sua Dialettica del mito (1930), importante ricerca apertamente antimarxista sulla natura e la concezione del mito, gli costa l’arresto e la condanna al Gulag.
Nel 1930 Losev e la moglie Valentina vengono arrestati per “attività antisovietica” e rinchiusi nel campo dello Svirlag, nella regione di Leningrado. Dopo diciassette mesi, di cui quattro e mezzo passati in cella di isolamento, Losev è condannato a dieci anni di lager sul canale Mar Bianco-Mar Baltico dove rimane per breve tempo: gravemente malato (diventerà quasi cieco), viene riconosciuto invalido prima di seconda e poi di terza categoria, quindi assegnato a un deposito di legname, di cui sarà guardiano otto ore al giorno, e infine liberato nella primavera 1932. Valentina, invece, viene trasferita nella prigione di Butyrki, costretta poi alla deportazione in Siberia, lontana migliaia di chilometri dal marito. L’esperienza della reclusione segna marcatamente l’esistenza di entrambi: le pagine del carteggio testimoniano il senso di privazione fisica e spirituale che però mai porta né Aleksej né Valentina allo sconforto e al ripiegamento su se stessi.
Il libro qui recensito, La gioia per l’eternità. Lettere dal gulag (1931-1933) (Guerini e Associati 2021), presenta proprio gli scambi epistolari intercorsi tra i coniugi Losev dal settembre 1931 al settembre 1933, ora disponibili al lettore italiano grazie alla bella e curata traduzione di Giorgia Rimondi, autrice di articoli sull’estetica loseviana e della recente monografia in lingua russa Le fondamenta filosofiche e la concezione del mondo nella prosa letteraria di A.F. Losev (l’espressione simbolica e musicale del senso) (Vodolej, Mosca 2019).
Come ricorda la curatrice nella nota del traduttore, si tratta di lettere pubblicate in Russia solo parzialmente nel 1989, nel 1993 e successivamente in una versione rivista e corretta nel 2005 su cui si basa la stessa traduzione. Il volume si inserisce nella preziosa collana “Narrare la memoria” promossa da Memorial Italia, che con altri tre esempi di letteratura autobiografica e memorialistica russa meno conosciuta, spesso censurata e dimenticata, ha arricchito il panorama editoriale italiano – Inseparabili. Due gemelli nel Caucaso di Anatolij Pristavkin (traduzione di Patrizia Deotto, 2018), Memorie di un assedio di Lidija Ginzburg (traduzione di Francesca Gori, 2019) e L’arte in rivolta. Pietrogrado 1917 di Nikolaj Punin (traduzione di Nadia Cicognini, 2020).
Questo quarto volume traccia una linea di continuità con i titoli precedenti, ascrivendosi a quel genere memorialistico che la stessa Lidija Ginzburg definisce un “genere intermedio” lontano “dai canoni e dalle regole”, caratterizzato “dall’audacia, dall’ampiezza sperimentale e da un rapporto intimo e naturale con il lettore” (La prosa psicologica, trad. it. 1994). I carteggi dei coniugi Losev registrano un dialogo di voci che vede protagonista la “memoria esemplare” di cui scriveva Tzvetan Todorov, una memoria che non cancella, non nega, ma marginalizza il dolore, lo supera con la straordinaria forza della creazione e della spiritualità: “Questa generosità del pensiero” scrive infatti Losev il 23 febbraio 1932 “ci offre la possibilità di trovare, anche nella nostra vita attuale, dei momenti positivi che non si possono rifiutare se non in preda a un odio cieco e sordo, ma che il filosofo deve riconoscere come un bene o come cammino verso il bene”.
Nelle pagine dell’epistolario dei Losev è inevitabilmente documentata la paura per la propria sorte, lo stato di graduale cecità raggiunto dal filosofo, ma anche il senso di solitudine, lo scompenso della propria anima. Colpiscono i momenti di inaspettata lucidità e slancio creativo in cui Losev condivide con la moglie riflessioni filosofiche e religiose, addirittura propone un progetto di libro (mai realizzato) da scrivere con lei. Da parte sua, Valentina, astronoma, esprime il desiderio di ritorno alla scienza, descrive il suo nuovo lavoro all’Accademia mineraria, ma senza dubbio è un’anima ferita, lacerata, “svuotata a causa di tutto”. I toni quieti di molte lettere devono essere spesso ridimensionati, giacché, come nota a buon diritto la traduttrice nella sua introduzione, su di essi “incide, oltre alla sofferenza psicologica derivante dalle condizioni del campo e dall’incertezza della propria situazione, anche il vincolo della censura”. Aleksej e Valentina sono consapevoli di trovarsi sotto lo sguardo vigile dei censori del campo e sentono minata la possibilità di scrittura, arrivando a esprimersi anche in codice.
Per entrambi, specie nelle lettere del 1931 e dei primi mesi del 1932, si fa pressante la preoccupazione della perdita della biblioteca personale nel loro appartamento di Mosca, a testimonianza del valore quasi carnale che i coniugi attribuiscono ai loro libri, simboli e custodi non solo di una civiltà culturale, ma anche della loro esistenza. A dominare gli scambi è la consapevolezza dell’esperienza vissuta, ma anche l’amore per la scienza, la filosofia, l’astronomia, la matematica, nonché l’amore di due anime complici, indissolubili, sorrette da una sicurezza interiore pur nella sofferenza e nel dolore dell’internamento.
La scrittura di Valentina è spesso iconica, attinge a immagini delle sacre scritture e talvolta contiene momenti di inattesa fiducia che si alternano alle lacrime versate e all’incapacità di comprendere il presente. In un passaggio di una lettera del 1° aprile 1932 ammette: “[…] nei momenti di afflizione ultima, di pietrificazione ottusa dell’anima, non mi appello all’intelligenza, ma semplicemente alla fiducia. È la sola cosa che non ha vacillato in me: la fiducia (non solo dello spirito, ma anche dell’anima, del cuore) verso ciò che ci accade. Ho fiducia, anche se per il momento non comprendo. Sai, il serpente che muta deve farsi violenza per gettare la sua vecchia pelle. A volte mi sembra che sia così che deve sentirsi il chicco di grano che cade a terra e comincia a marcire. Sente che sta morendo, ed è incredibilmente spaventato, vuoto e freddo. Non vede ancora il nuovo germoglio vivo che sta spuntando da qualche parte in profondità”.
Il coraggio, la forza interiore così come la rabbia verso quanto sta accadendo caratterizzano molte lettere di Aleksej che non si dà pace per quell’esperienza logorante: “Tu sai quello che arricchiva la mia anima, quello che mi rendeva profondo, chiaro, spiritualmente gioioso e forte. E sai quello che oscurava la mia anima, la abbassava e la rendeva simile alla massa dell’umanità comune […] l’odio puro, insolente e schietto, il nudo sentimento della rabbia cieca, regna attorno a me e, sembra, in me”.
Sullo sfondo di alcune missive si avverte la presenza di una natura silenziosa, avvolta ora in un manto di stelle ora in fiabesche montagne che quasi fanno dimenticare agli autori – e anche ai lettori – la truce quotidianità del campo. Una dolce poesia contrapposta a una dura realtà di cui è consapevole anche Valentina quando si rivolge al marito, scusandosi di quei versi da “ginnasiale del terzo anno che scrive un componimento con la descrizione della natura”. Un lirismo leggero che accompagna la pesantezza dei pensieri e che dimostra la potenza della parola, quell’“organo di autorganizzazione della personalità” senza la quale “la storia sarebbe stata sorda e muta” (A.F. Losev, Dialektika mifa, Akademičeskij proekt, Moskva 2008).
Una parola che, però, negli squarci di afflizione diviene “impotente”, violata, privata del suo ruolo primario di espressione, “carne attiva che si risolve in evento” (O. Mandel’štam, Della natura della parola in Id., La quarta prosa e altri scritti, SE, Milano 2020); una parola ora insufficiente per riprodurre gli stati d’animo e il turbinio di ansie e paure. Nelle sue lettere ai genitori e al marito Valentina scrive: “Qui le parole sono impotenti (corsivo mio, nda). È terribile quando penso a tutta la sofferenza che avete dovuto sopportare nella vita a causa mia” (10 gennaio 1932); “Com’è possibile? Io ora qui sono sola, assolutamente sola. Le parole che mi vengono sono impotenti” (5 febbraio 1932); “Ho sempre voglia di scrivere, la mia anima vuole comunicare con l’essere che più mi è caro, ma tutte le mie parole sono impotenti” (13 febbraio 1932).
Come in un componimento musicale, il carteggio a due voci è intervallato da alcune lettere dei genitori di Valentina, Tat’jana e Michail Sokolov, che premurosi scrivono alla figlia e a suo marito, attendono loro notizie pur consapevoli che spesso esse risultino falsate, distorte, per non destare preoccupazioni e timori: “Siamo felici che ti senta bene, ma fatichiamo a crederci” confessano lapidari in una lettera non datata alla figlia.
La preziosa narrazione autobiografica, accuratamente riprodotta nella traduzione di Rimondi nonché supportata da un ricco apparato di note, viene suggellata da una postfazione di Elena Tacho-Godi, direttrice della “Casa Losev” di Mosca, fine studiosa dell’opera loseviana e del pensiero filosofico del primo Novecento. Nelle sue pagine Tacho-Godi presenta al lettore italiano la biografia e l’opera del filosofo, ma anche il valore dell’epistolario pubblicato: “Il carteggio dei Losev” ricorda Tacho-Godi “è un documento sulla quotidianità del lager, dove regnano il freddo, la fame, l’oscurità, l’umidità, la criminalità, un universo ritmato dai trasferimenti, dagli incessanti tentativi per ottenere una revisione della pena”.
Il volume curato da Rimondi assolve così un duplice compito: racconta la fatica e la stanchezza fisica e psicologica della vita nel campo sperimentata da due diretti testimoni e consente una prima conoscenza di Losev in Italia, pensatore e scrittore mai tradotto sinora che invece merita particolare attenzione tanto per il suo contributo filosofico quanto per quello letterario. La prosa di Losev, sperimentata come momento di rinascita proprio dopo l’esperienza concentrazionaria (L’incontro, 1932; Il trio di Čajkovskij, 1933 e La donna pensatrice, 1933-1934, per citare alcuni titoli), accoglie l’estetica loseviana, specie quella musicale, e mira non soltanto a fotografare la realtà, ma anche a sottolineare l’intimo legame del reale con il destino dell’eterno.
Questo primo contributo di e su Losev apre dunque a nuove esplorazioni che permettono di guardare più da vicino un’importante e “nascente individualità” della cultura russa del XX secolo, un’individualità mai fermata “dalla morsa di ferro della censura sovietica”.
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