“La mia conversione avvenne il 25 dicembre 1886. (…) In un istante il mio cuore fu toccato e credetti. (…) All’improvviso avevo provato il sentimento straziante dell’innocenza, l’eterna infanzia di Dio, una rivelazione ineffabile”. Così racconta Paul Claudel (1868-1955) in Ma conversion nel 1909. “Un’emozione dolce in cui però si mescolava un sentimento di spavento e quasi di orrore! Perché le mie convinzioni filosofiche erano integre. Dio le aveva lasciate sdegnosamente dove stavano, non vedevo nulla da cambiare, la religione cattolica mi sembrava ancora lo stesso tesoro di aneddoti assurdi, i suoi sacerdoti e i suoi fedeli mi ispiravano la stessa avversione che arrivava fino all’odio e anche al disgusto. L’edificio delle mie opinioni e delle mie conoscenze rimaneva in piedi e non vi vedevo alcun difetto. Semplicemente, ne ero uscito”.



La rinuncia definitiva a quelle “convinzioni” – messe a confronto con la “carne” della “rivelazione ineffabile” che aveva sperimentato – avverrà dopo un percorso di verifica lungo e penoso; e solo quattro anni dopo, in un’altra notte di Natale, lo scrittore francese deciderà di ricevere nuovamente la comunione. “Fu la grande crisi della mia esistenza, quell’agonia del pensiero di cui Arthur Rimbaud scrisse: ‘La lotta spirituale è brutale come una battaglia. Dura notte! Il sangue secco fuma sulla mia faccia!’”



Quella della fede è davvero per Claudel la battaglia della vita, che insieme ne diviene figura e ricapitolazione; uno sguardo che si prolunga su ogni cosa paragonandola con il destino ultimo dell’uomo, perché la vita è “solo un sogno malvagio”. E quasi trent’anni dopo, scrivendo dei primi giorni di guerra, prevarrà ancora in lui un sentimento – un’analogia “brutale” essa stessa – di infiammata partecipazione al misterioso progetto di Dio, che a noi lettori di oggi quasi spaventa per l’indifferenza al dolore e alla morte che ostenta. “Dio ha misericordiosamente nascosto agli uomini, perché abbiano qualche merito, quel poco di dolore che c’è a lasciare questo luogo di sofferenza e di tenebre. Nient’altro che una grande luce abbagliante come la spada dell’angelo sterminatore ed ecco finalmente la realtà intorno a noi”, insiste Claudel. Ma se a questa radicalità egli non verrà mai meno, anche la sofferenza troverà infine la propria voce e insieme ne sarà svelata la vera natura di attesa.



La nuit de Noël de 1914, da cui derivano queste prime citazioni, è un testo teatrale che Claudel stesso definisce solo un drame pour patronages. Scritto per essere rappresentato in una parrocchia parigina, vi si racconta come l’attacco alla Francia sia un attacco alla cattolicità, le armate di Lutero che muovono contro la Chiesa e ricercano la distruzione della vera fede e dei suoi simboli. All’origine dell’azione scenica, il bombardamento della cattedrale di Notre-Dame a Reims e le violenze commesse dall’esercito tedesco mentre ancora avanzava di corsa verso Parigi prima della battaglia della Marna. “Gli altri popoli dicono che Dio è con loro e che li difende, ma noi siamo quelli che lo difendono”. A combattere insieme alla Francia, Claudel invoca proprio la Vergine Maria: “nostra madre, nostro generale, bruciata, insultata, mutilata, vuota, vedova, percossa, eretta! E i Boches di fronte a lei non sono avanzati di un passo”.

Già diplomatico di carriera, allo scoppio della guerra lo scrittore era console proprio in Germania. Dopo il rientro d’urgenza in patria viene assegnato prima al servizio di censura dei telegrammi e poi alla propaganda nazionale: un aspetto che è fondamentale per comprendere il tono orientato al proselitismo e certe ruvidezze dei testi composti soprattutto all’inizio delle ostilità.

Anche questa Nuit de Noël, poco significativa dal punto di vista teatrale e poetico, si segnala per l’intenzione propagandistica ben esibita e una radicalizzazione del conflitto che vuole alimentare lo spirito della battaglia. La sola fraternizzazione offerta dal testo riguarda due fanti francesi che muoiono insieme, colpiti da un’unica pallottola, mentre uno ha in braccio l’altro per portarlo in salvo, ferito, dentro la trincea. Jean è un seminarista e Jacques un istitutore laico. Un’amicizia che sancisce l’immagine di una Francia patria della fede e insieme della libertà.

L’idea intorno alla quale ruota il dramma è la sua ambientazione in uno spazio intermedio tra la terra e il cielo, una sorta di anticamera del Paradiso nella quale si ritrovano tutte le vittime francesi e dove la realtà trova il proprio svelamento, quasi un canto dantesco, in cui i personaggi riconoscono se stessi secondo una prospettiva già eterna ma che non cancella, anzi evidenzia, i connotati umani di ognuno. “La morte è arrivata e niente è cambiato intorno a noi”, osserva il maestro. “Niente di ciò che accade sulla terra è perduto per il cielo. Tutto trova lì il suo significato. Tutto lì diventa spiegabile, la stessa cosa adesso intellegibile”, è la risposta sicura del seminarista; entrambi, ora, rappresentati come bambini.

Pochi mesi separano questo dramma e anche i primi Poèmes de guerre (che hanno atteggiamento e intenzioni simili) dagli Autres poèmes durant la guerre, di cui fa parte anche La grande attente, scritta nell’agosto 1915 (e a cui appartengono le prossime citazioni).

Il tono è certamente più intimo, con immagini che ripercorrono il lavoro dei campi e le sue varie fasi (l’aratura, la semina, il raccolto) e delle quali è parte naturale e ineludibile anche l’attesa, il tempo necessario perché i doni della terra arrivino a maturazione; un ciclo vitale che è metafora immediata della vita stessa dell’uomo, del quale anche il suo sacrificio, come la morte del seme, entra a far parte. A chi resta è richiesta la stessa pazienza che chiede la terra, la stessa attesa perché anche quella morte riveli i suoi frutti; e un’attesa piena di speranza e pure di fatica perché è come accettare un’eredità (non solo materiale) di cui si diventa responsabili.

In questa sorta di dialogo tra i morti e chi invece continua a vivere e a soffrire, Claudel si riferisce esplicitamente al sacrificio in guerra per la difesa della patria, ma non ci offre resoconti di battaglie o di violenze che intendano esaltare sentimenti d’odio, incitare all’eroismo, e neppure promettere una gloria terrena che sia motivo sufficiente o ricompensa per esso. “Mangiate questo pane che è fatto della nostra carne. Ma la cosa che abbiamo davvero donato, quella, chi è in grado di riceverla? Né voi, né ciò che fu la nostra patria, né ciò che voi chiamate gloria, Non basta a contenerla tutta intera!”

È come se il sacrificio dei soldati fosse in fondo lo stesso dell’agricoltore o di un padre e di una madre; e morire di lavoro per mandare avanti la famiglia o morire in guerra non fosse altro che la stessa risposta di tenera accettazione dell’amore di Dio. Non conta la gloria, conta solo “l’ispirazione a donare tutta la propria vita, come l’ispirazione stessa a crearla, improvvisamente incontenibile e necessaria. Gratuita come la grazia di Dio!”. Tu stesso, così, grazia di Dio.

D’altra parte chi resta, chi beneficia di “questa vasta eredità accumulata”, sa bene di essere parte dell’offerta, “che come per il grappolo e per il grano, il meglio non gli è destinato”, e si rivolge a Dio stesso con una confidenza che segna in modo particolare tutta la seconda parte del testo. Perché “c’è qualcosa di più pesante da sopportare per un albero del peso dei suoi frutti, per una madre del peso di tutti i suoi figli morti, ed è la Vostra immobilità!” E lo incalza “con veemenza”, perché qualcosa è cambiato.

Perché come Dio ha stretto una nuova alleanza con l’uomo offrendo suo Figlio, così questi morti (non solo in guerra, ma tutti coloro che offrono gratuitamente se stessi) generano un nuova alleanza con Dio, che lo impegna in modo vincolante. “C’è una grande alleanza volente o nolente tra noi d’ora in poi, c’è questo pane che vi abbiamo offerto, C’è questo sacrificio vivente ogni giorno di cui noi forniamo il materiale, Questo calice dove abbiamo bevuto insieme! Questo pane, questo vino che avete accettato, sono nostri! tra noi non siete più Voi l’unico a dare!”.

E conclude, Claudel, con un’immagine di nuovo intima e familiare: un Dio padre addormentato, come un contadino stanco all’ombra di un albero, o un bambino appena nato nella sua culla, cui tutti rivolgono lo sguardo, in attesa del suo risveglio. Come un dolore che si custodisce, che nulla cancella, e si aspetta di poter consegnare; come una pace che non si capisce, ma ti afferra; una pace che è proprio questo legame, questo sguardo al Dio addormentato.

“Questo legame con cui siete legato
e che dobbiamo usare con la preghiera,
Questa pace che è grande
e di cui possiamo dire che è amara,
Questo silenzio in cui tacete, questo sonno
in cui vi vediamo addormentato, Voi nostro Padre,
Seduto tra i nostri campi raccolti, tra i frutti
e la desolazione di tutta la terra.
Sotto questi rami carichi di frutti pendenti!”

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