Caro direttore,
reagisco all’articolo di Alberto Leoni dedicato alla festa della Liberazione e soprattutto reagisco al solito rituale – mi lasci dire stucchevole ed in tante espressioni pure volgare – apparse sui social a proposito del 25 aprile.

Mi spiace non poter condividere pienamente quanto scrive Leoni, ma tra le sue righe leggo qualcosa di stonato. E non mi riferisco al giudizio davvero lucido eppure così risentito o forse, per meglio dire, amaro di Leoni quando parla di “ignoranza crassa e dolosa”, di “zuppone alla porcara”, di “torturatori fascisti e partigiani assassini”. Per inciso anche a me verrebbe da rallegrarmi con lui per come è stato spietato nel giudizio, anche se mi chiedo se sia giusto essere così tranchant, perché in fondo la memoria storica è stata anche un vissuto storico e personale.



Mi spiego meglio: Leoni bastona il modo con cui sia a destra che a sinistra si celebra il 25 aprile. Egli afferma l’esigenza che sia da destra che da sinistra si facessero una buona volta i conti gli uni con il fascismo e gli altri con il comunismo e si considerasse la natura totalitaria di quei movimenti e regimi. Sì, ma si tratta di un giudizio giusto che nella sua essenza è pur sempre di natura negativa. Più che un giudizio, è un j’accuse, una mozione di (ri)sentimento. Ed io, che come Leoni aborro quella “perduta gente”, che sinceramente però – entrambi ne conveniamo – fanno parte del nostro passato e del nostro presente, noi, cosa proponiamo?



Anche noi ci rifugiamo, meglio, cerchiamo una legittimazione storica alla nostra idea di resistenza: ed ecco un uso, a mio giudizio anch’esso fuorviante, della storia da parte di Leoni: richiamare il fatto che è esistita anche una resistenza militare, una resistenza cattolica, una monarchica, infine pure liberale. Qui è il punto. Ci lamentiamo delle due anime contrapposte, il fascio nero e il comunismo rosso auspicandone il superamento (come sarebbe ora!) e la riconciliazione. E noi, cosa proponiamo? Una terza posizione. Non vediamo che così non si esce da un puro desiderio di superare la divisione? Così facendo, partiamo già dalla divisione, partiamo divisi. E accusiamo gli altri mentre noi stessi siamo parte di essa.



Perciò vengo al punto. Per superare il 25 aprile oltre le appartenenze, ci vuole un giudizio e un luogo di vera unità. È il Presidente della Repubblica tale luogo? Questo è un pio pensiero dai piedi di argilla. Lo è in quanto simbolo dell’unità istituzionale della Repubblica, una sorta di unità di bandiera. Ma quella forma istituzionale come tale è vuota e infeconda. È simbolica ma non genera nulla.

Mi chiedo se per non dover assistere a “questi” 25 aprile, di memoria divisiva più che di Liberazione, bisognerà aspettare ancora decenni, fino a quando le attuali generazioni saranno scomparse – e francamente mi auguro di no. Basterebbe forse cominciare a fare i conti oggi, da subito, con l’idea della politica fondata sul “nemico”, debellandola. È ciò che serve per transitare da un 25 aprile della liberazione dal nemico ad un 25 aprile della ritrovata democrazia, in cui non ci sono nemici. Ci vuole un movimento politico che si senta vero soggetto di democrazia. La destra e la sinistra di oggi considerano la loro memoria storica discriminante rispetto alla responsabilità verso l’altro e il bene comune. Solo un movimento politico la cui soggettività si concepisce come parte di una società italiana plurale – per usare il linguaggio del cardinale Scola – può avviare un processo di rivalutazione del 25 aprile come ritorno alla democrazia, di cui quella data è stata solo una tappa. Ogni enfasi di rivendicazione identitaria estrapolata da una pratica politica che cerca l’altro come diverso, non da tollerare ma per la sua positiva specificità, per il suo apporto al bene comune, sarà sempre ambigua e segnata dalla divisione.

Proprio la prevalenza storica e ideologica degli antecedenti identitari, considerati valori non negoziabili, più importanti del proprio apporto politico ad una convivenza plurale è ciò che ancora oggi blocca i partiti. E lo dimostra lo squallido comportamento tenuto in questa pandemia durante la quale neppure i quasi 27mila morti son stati capaci di schiodarli dall’amare più il proprio partito che il proprio paese, come ha ricordato qualche giorno fa nella messa mattutina in Santa Marta Papa Francesco.

Del resto neppure il terrorismo durato 35–40 anni è servito ad estirpare la radicalizzazione faziosa di destra e di sinistra a vantaggio di una seria e vera pacificazione politica. Sarebbe qui utile leggersi il bellissimo saggio Un’azalea in via Fani di Angelo Picariello.

Comunque questo è il nostro presente, la nostra dura realtà, ed essa attende che noi poniamo in atto tentativi politici di vera socialità e unità nazionale. I germi di un tale movimento ci sono già; purtroppo i virus malefici di ogni tipo sono anch’essi sempre all’opera. Di certo le feste non bastano più: né quella della Liberazione, né quella del 4 novembre della “unità nazionale”, né quella della Repubblica il 2 di giugno.