La montagna è sempre stata una grande esportatrice di uomini, che hanno dovuto cercare altrove spazi adeguati per salvaguardare il loro comune destino, prima che esso fosse segnato, almeno in alcune aree privilegiate, dalla recente industrializzazione del turismo di massa.
La ristrettezza delle risorse interne ha imposto un limite oggettivo alla capacità di sostenere il peso di comunità umane che, nelle congiunture demografiche più favorevoli, hanno dilatato la conquista delle terre alte, subordinando gli ambienti naturali alle esigenze degli equilibri collettivi. Per compensare la povertà dei frutti estraibili e commerciabili attraverso i canali dei sistemi economici locali, l’unica via percorribile divenne la disponibilità crescente al nomadismo. Alimentando i flussi migratori verso i bacini delle pianure e i più dotati agglomerati urbani, invece di rimanere chiuse nei loro recinti di sicurezza, le popolazioni delle valli hanno trovato una valvola irrinunciabile di sfogo verso l’esterno. Si sono affacciate con la loro concorrenza vincente sul mercato degli sbocchi lavorativi e delle professioni, anche su estese traiettorie sovraregionali, a volte persino transnazionali, e facendo così hanno potuto generare preziose rimesse di beni e di denaro filtrate dai guadagni e dai successi personali, allo stesso tempo ampliando l’orizzonte culturale di esperienze, di informazioni e di abilità capaci di riversarsi come una dote supplementare di arricchimento sui contesti di provenienza.
Bisogna infatti sottolineare che la mobilità sociale tipica dell’Antico Regime è lontana dall’essere identificabile con i fenomeni migratori dell’odierna globalizzazione planetaria. Non muoveva esclusivamente dal basso, investendo i margini più precari degli assetti gerarchici della società, schiacciati dalla morsa soffocante della miseria, dell’instabilità e di uno sradicamento senza vie di uscita. Anche le punte più elevate degli aggregati umani delle zone di montagna erano coinvolte in un intenso interscambio con il mondo “di fuori”: l’evasione dall’obbligo della sedentarietà era trasversale e universalmente condivisa.
Anzi, più ci si trovava nella condizione di acquisire competenze e disponibilità di mezzi, più si allargavano le possibilità di opzione a cui affidarsi per dare respiro al dinamismo che fermentava nei quadri delle comunità rurali, sottraendole alla tirannia di un lavoro agricolo e pastorale fortemente penalizzato dalle avversità delle condizioni climatiche e dal più modesto grado di messa a profitto dei terreni. Da qui scaturiva l’esigenza di accompagnare l’addestramento alla mobilità con l’acquisizione di efficaci strumenti di promozione intellettuale, che hanno richiesto un accesso a livelli di alfabetizzazione se non altro elementare ben più marcati rispetto a quelli registrabili nelle zone di pianura per tutti i secoli della prima età moderna. Gli spostamenti migratori erano anche una forma di investimento del surplus di un capitale umano che aveva bisogno di fare leva sui suoi punti di forza per trasformarsi in una strategia di rendimento positivo, finalizzata non a erodere, ma a consolidare gli assetti delle comunità di partenza, valorizzando le loro propensioni alla progettazione e all’iniziativa sociale.
Questo spiega come mai la forza attrattiva degli sbocchi migratori non coinvolgesse soltanto figure e mansioni di manovalanza di bassa qualità, come quelle di facchini, domestici, uomini di fatica, venditori al dettaglio di generi alimentari, ma si allargasse fino a includere gli addetti a trasporti e comunicazioni, uomini esperti di organizzazione dei commerci su lunghe distanze, piccoli e grandi imprenditori, specialisti delle tecniche anche più complesse e raffinate, senza tralasciare i vertici della manipolazione dei materiali per le costruzioni e la decorazione artistica al servizio della collettività sociale: scalpellini, stuccatori, artigiani della lavorazione del legno e della pietra, pittori, capimastri, architetti. Inoltre l’effetto tutt’altro che solo di rottura del pendolarismo tra montagna e pianura era legato al fatto che l’emigrazione non si traduceva se non eccezionalmente in un divorzio definitivo.
Il trasferimento era il più delle volte di carattere stagionale, comunque temporaneo. E anche quando lievitava nelle sue implicazioni aprendo la strada all’innesto in luoghi diversi dalla patria di origine, continuava a nutrire il circuito di una relazione in entrambe le direzioni (dalla comunità primitiva verso la nuova collocazione adottata, e viceversa), attraverso cui non semplicemente i beni materiali, ma anche le conoscenze, i saperi appresi, i modelli religiosi assimilati, gli stili e le consuetudini sociali degli ambiti forestieri si trasmettevano lungo le catene delle parentele e mediante le varie forme di cooperazione tra gli individui, lasciando una traccia che contribuiva a modellare la fisionomia delle stesse comunità rifornitrici della mobilità extraterritoriale. Lombardi, luganesi, veneti, tedeschi, potevano creare a Venezia, a Roma, nelle città portuali del Meridione, i loro centri di aggregazione per tutelarsi a vicenda in quanto stranieri proiettati verso l’esterno. Ma poi finanziavano pale di altare, arredi sacri e nuovi edifici di culto per celebrare, nelle contrade di antica residenza, i santi protettori conosciuti lontano da casa. Mantenevano corrispondenze con i congiunti rimasti a custodire il focolare e le proprietà della famiglia, senza abbandonare il sogno di poter fare ritorno, prima o poi, nella terra in cui erano nati, per concludere l’esistenza dove il loro percorso aveva preso avvio e li attendeva l’abbraccio comunque accogliente della propria stirpe.
Un episodio paradigmatico che illumina il rilievo cruciale della mobilità intesa come opportunità di crescita per il mondo delle montagne dei secoli scorsi è la colonizzazione dei gruppi walser nelle terre piemontesi e valdostane disposte intorno al massiccio del Rosa. A partire quanto meno dal XIII secolo, gruppi di intraprendenti agricoltori affluiti dalle aree transalpine di tradizione linguistica germanica ottennero in concessione da feudatari e proprietari ecclesiastici alpeggi e terreni agroforestali delle testate più elevate delle valli del versante “italiano”, dove la presenza di insediamenti stabili era ancora sporadica.
Da Macugnaga e Rimella fino alla conca di Alagna, alla Valle Vogna e anche altrove pian piano poterono impiantarsi villaggi di contadini-allevatori che, sfruttando in modo razionale le magre risorse dei nuovi contesti di esistenza, svilupparono il loro stile architettonico inconfondibile, il loro dialetto e la loro cultura. L’alta montagna fu, fino a un certo punto, addomesticata, antropizzata fino ai margini dei prati e dei boschi più elevati che consentivano una minima forma di sfruttamento redditizio. Misurandosi in un corpo a corpo avvincente con le magre risorse messe a disposizione dalla natura, si accumularono nel tempo energie considerevoli di destrezza artigianale e una fine sensibilità estetica. I walser riuscirono anche a espandersi verso il basso, qui mescolandosi con le popolazioni preesistenti. Ma mantennero a lungo i loro legami reciproci, la loro tendenza all’endogamia e la loro arte.
Molti di loro si aprirono, in ogni caso, alla possibilità di tentare avventure anche radicalmente diverse da quelle delle generazioni di cui erano eredi. La simbiosi con la terra e l’allevamento del bestiame non rimase una schiavitù invincibile. Non pochi si acculturarono. Migrarono all’estero, anche molto lontano, e trapiantarono in luoghi come l’ambiente elvetico e germanico, da cui erano venuti i loro progenitori, abilità manageriali che portarono, per esempio, i Maestri “Prismellesi”, dalle Pietre Gemelle dell’alta Valsesia, a conquistare un ruolo di leadership nei cantieri del tardogotico svizzero, da fine Quattrocento al pieno Seicento. Allo spirare del XVI secolo, i fratelli d’Enrico (teutonice: Heinrichs) di Alagna sfondarono nella direzione delle arti figurative. A fianco di Melchiorre e Giovanni, Antonio, detto poi Tanzio, si affermò come il pittore più apprezzato del clan famigliare. Si recò a Roma. Conobbe il genio di Caravaggio. Soggiornò per diversi anni a Napoli e negli Abruzzi, per poi fare ritorno in terra lombardo-piemontese e legare definitivamente la sua fama allo straordinario complesso monumentale del Sacro Monte di Varallo.
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