La neve in fondo al mare è l’ultimo libro di Matteo Bussola, arrivato in libreria il 25 giugno come proposta di libro per l’estate. Concordo con la scelta editoriale, perché è un libro da brivido, che non teme il sole della spiaggia o la calura tropicale della città. In ogni modo il brivido è garantito. Ma La neve in fondo al mare non è un giallo, né un horror, è un racconto ambientato in un reparto di neuropsichiatria infantile. Idealmente potrebbe far coppia con Tutto chiede salvezza. Altro autore, Daniele Mencarelli, stesso genere: lì l’ambientazione è la psichiatria, il protagonista è un giovane, ma non un ragazzo, i genitori sono tenuti dall’autore sullo sfondo, mentre nel libro di Bussola il protagonista è un quattordicenne e i genitori sono in primissimo piano. Inoltre, i genitori sono co-pazienti, a loro volta ricoverati, vigendo in reparto l’obbligo della loro presenza, perché i figli potrebbero togliersi la vita da un momento all’altro. Il suicidio, come ha insegnato Freud, è un atto omicida: è l’omicidio di sé stessi, che ricade come effetto sugli altri, a partire dai più prossimi. Anche la minaccia di suicidarsi è un atto violento, certamente non pacifico.
Ad essere precisi – questo però il libro non lo annota – l’obbligo di permanenza in reparto si riferisce sì ai genitori, ma è estensibile anche a chi “ne fa le veci”. Non è una precisazione da poco, perché apre sulla non-esclusività della relazione coi figli. Dal racconto di Bussola, un autore che riesce a strappare al lettore più di un sorriso, pur in mezzo ai drammi che racconta, il rapporto tra genitore (madre o padre) e figlio esce come una sorta di senso unico, obbligato per entrambi. Un cerchio che si chiude su sé stesso. Il filo che lega l’aquilone alla mano e la mano all’aquilone, per usare una metafora proposta dal libro.
Insomma, una prigione. Quella dove sono imprigionati Tano, il papà, e Tommy, il figlio quattordicenne affetto (di quale affetto si tratta?) da una grave anoressia mentale. In modo quasi inconsapevole l’autore descrive ragazzi e ragazze che non hanno altri interlocutori se non i genitori: non amici, fratelli o sorelle maggiori, allenatori, insegnanti, sacerdoti, medici, fidanzate/ti, psicologi, autori di romanzi, maître-à-penser, influencer. Niente. Quando poi un altro adulto diverso dai genitori entra in scena in modo significativo, salta fuori che è un “maiale”: un molestatore, come nel caso dello zio di Eva, un’altra delle storie a cui Bussola dà voce nel suo libro. Il risultato è un affresco macabro, come certi dipinti medioevali: la famiglia è un inferno e tutt’intorno è un campo minato.
La neve in fondo al mare è un’espressione che vuole indicare stupore, incredulità, spaesamento di fronte a quanto sta accadendo proprio sotto i propri occhi. Tale è la condizione di Tano, l’ingegnere, papà di Tommy, voce narrante del libro. Tuttavia, questo non è l’unico significato della frase. Raffaele Repizzi, che titola così una sua canzone dell’album Fra la mia gente del 2020, le attribuisce un senso di fiducia: “tu credici – canta Repizzi – e vedrai la neve in fondo al mare”. Tra questi due poli, spaesamento e fiducia, si muove rapsodicamente la mente di Tano, rimbalzando tra ricordi, frustrazioni e desiderio di capire, di arrivare a qualcosa con il proprio pensiero: l’unica leva davvero democratica di cui ciascuno dispone. Tano è un ingegnere che testa la resistenza dei materiali, ne calcola il punto di rottura per realizzare un equilibrio diverso e più forte. Costretto dalle circostanze all’impotenza, non può far nulla, allora pensa e affida i suoi pensieri a un diario che scrive nei giorni di co-ricovero. Da qui verrà la lettera al figlio che riapre i giochi con Tommy. È un lavoro che gli permette di portare in superficie vecchi traumi personali, perché anche i padri sono figli e nella relazione coi loro figli questi traumi entrano in gioco, tanto più se inconsci.
Quando Tommy torna ad aprire la bocca, prima ancora di mangiare torna a parlare. A Tano chiede perché gli avesse interdetto il rapporto col nonno quando era piccolo. Domanda inaspettata che apre su una dimensione incomprensibile per il figlio, perché il dato non è sensibile: il nonno non è mai stato malvagio o sgradevole, ma risiede nella memoria di Tano, il cui padre era algido, non incoraggiante e – all’apparenza- mai soddisfatto del figlio e dei suoi traguardi. Una cifra affettiva (qui l’affetto è la delusione), che spinge Tano a progettare un rapporto diverso con Tommy. “D’un tratto penso che sono diventato padre perché ero stufo di essere figlio in quel modo”. Diventare genitore assume il senso di un “secondo tempo” in cui riscattare le delusioni patite nel primo tempo col proprio padre (o con la madre), senza accorgersi di giocare sempre la stessa partita fallimentare. La forza e l’intelligenza di Tano stanno nell’intravvedere il successo nel fallimento e abbandonare il progetto risarcitorio, come bussola del rapporto con Tommy.
Tra i vari pregi del lavoro di Bussola c’è quello di mantenere viva la provocazione culturale sul tema del padre, attualmente svilita a polemica sul “patriarcato”. Non a caso Matteo Bussola con Federico Taddia ha condotto la trasmissione radiofonica di Radio 24 I padrieterni. Ma, appunto: se il padre non è un padreterno, e neppure uno che cura sé stesso attraverso e a scapito del figlio, allora chi è? O detto in altro modo: chi è (davvero) un padre (madre inclusa)?
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