La Storia di Elsa Morante è uno dei più grandi capolavori del Novecento letterario italiano. È un romanzo in cui l’immersione nella realtà e nei suoi rivoli angusti è totale e senza sconti: una realtà feroce, non edulcorata dai pensieri, non redenta, non ammansita dall’ideologia; che anzi, nella figura tremendamente malinconica di Davide Segre, si mostra in tutta la sua violenta incomunicabilità. Una realtà che grida giustizia, bellezza e verità nella sue forme più autentiche e naturali, una realtà che mostra l’uomo nella sua tremebonda piccolezza e, quindi, nella sua infinita, sconfinata grandezza.



Su un punto il romanzo è micidiale: questa sete di bene non ha alcuna ipotesi di risposta, è lasciata sola a se stessa nei drammi che scorrono a fiotti nel trambusto dell’esistenza umana. Si toccano altezze di bisogni e di dolore vertiginose e cogenti, ma si ricade sconsolati nell’impossibilità disperata di trovare un conforto. Meraviglioso e straziante al riguardo è l’emblematico racconto della SS che Davide Segre fa al piccolo Useppe. Un passo noto, anzi notissimo, che val comunque la pena ricordare:



“C’era una SS che, per i suoi delitti orrendi, un giorno, sul far dell’alba, veniva portato al patibolo. Gli restavano ancora una cinquantina di passi fino al punto dell’esecuzione, che aveva luogo nello stesso cortile del carcere. E in questa traversata, l’occhio per caso gli si posò sul muro sbrecciato del cortile, dove era spuntato uno di quei fiori seminati dal vento, che nascono dove capita e si nutrono, sembrerebbe, d’aria e di calcinaccio. Era un fiorellino misero, composto di quattro petali violacei e di un paio di pallide foglioline, ma in quella prima luce nascente, la SS ci vide, con suo stupore, tutta la bellezza e la felicità dell’universo e pensò: ‘Se potessi tornare indietro, e fermare il tempo, sarei pronto a passare l’intera mia vita nell’adorazione di quel fiorelluccio’. Allora, come sdoppiandosi, sentì dentro di sé la sua propria voce, che gli gridava: ‘In verità ti dico, per questo ultimo pensiero che hai fatto sul punto di morte, sarai salvo dall’inferno’. Tutto ciò a raccontartelo mi ha preso un certo intervallo di tempo, ma là ebbe la durata di mezzo secondo. Fra la SS che passava in mezzo alle guardie e il fiore che si affacciava al muro, c’era tuttora, più o meno, la stessa distanza iniziale, appena un passo: ‘No! – gridò tra sé e sé la SS, voltandosi indietro con furia –. Non ci ricasco, no, in certi trucchi!’. E siccome aveva le mani legate impedite, staccò quel fiorellino coi denti poi lo buttò in terra, lo pestò sotto i piedi. E ci sputò sopra”.



La realtà, come aveva magnificamente intuito tutto il decadentismo europeo, porta con sé un mistero, una corrispondenza, una promessa di bene, una possibilità di ripartenza che affascina e rapisce. Ma senza il volto di una compagnia che rende Amico questo mistero, tale intuizione è destinata a ri-perdersi nel cono d’ombra abissale dei nostri abortiti tentativi. E si finisce per “non ricascarci più”, e “per sputarci sopra”.

Con tutte le sue umane storture, la Chiesa al mondo esiste per questo: per farsi compagna nel cammino dell’uomo affinché lo slancio che la realtà suggerisce e propone possa trovare un Amico che lo raccolga e dia ad esso speranza. Ecco perché è pura illusione pensarsi cristiani senza la Chiesa (anche, anzi soprattutto, quando non la capiamo).

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