Non si parla mai volentieri delle proprie ferite. E quando lo si fa si rischia sempre la depressione o l’esaltazione. Depressi perché non riusciamo a risolvere una situazione di scompenso o di sconfitta; oppure esaltati perché comunque sia abbiamo tentato di affrontare eroicamente una difficoltà o di domare la sorte.



C’è però una ferita di cui tutti segretamente sappiamo, e che possiamo anche negare o nascondere, ma che avvertiamo al fondo del nostro io: il desiderio di qualcosa che non riusciamo mai a raggiungere pienamente, e che continua a inquietarci. Come una promessa che attende sempre di essere adempiuta, e non si spegne mai del tutto in disillusione. Come una mancanza in cui si annuncia tutto il nostro bisogno di un altro che ci riconosca e ci voglia. Questa ferita è il nostro stesso “io”.



È attraverso di essa che noi scopriamo di avere una “carne”. Quella carne che è fatta non solo di organi fisici e di funzioni biologiche ma di intuizioni e sentimenti, di pensiero e di emozioni. Noi siamo continuamente toccati dalla realtà – volti, persone, oggetti, eventi e incontri – e ogni volta tutto dipende da come ci lasciamo raggiungere. Molto spesso questo contatto suscita in noi una reazione programmata e scatta allora quasi inconsapevolmente una strategia di difesa, appunto per non lasciarci ferire dalle cose.

È la grande macchina del quotidiano, la routine ormai collaudata con cui cerchiamo di reggere il colpo dell’alterità. Basta pensare a come ci svegliamo al mattino, in quel momento strano e decisivo in cui si decide per così dire della postura con cui ci butteremo nella giornata. Nel passaggio impercettibile tra il sonno e la veglia si affollano tutti i pensieri di ieri, le questioni rimaste irrisolte e quelle soddisfatte, e si presentano insieme i problemi e i programmi che ci aspettano oggi. In un istante si gioca la strategia: attacco o difesa, indifferenza o ansia, voglia di normalità o disponibilità all’imprevisto. Verrebbe da dire, individuando la dimensione “metafisica” che sostiene e accompagna un istante quasi scontato come questo, che in quel momento ciascuno è di fronte al bivio più importante, alla scelta più decisiva – sebbene quasi inavvertita – di ogni giornata: quella tra l’essere e il nulla.



È questa la ferita segreta che segna il nostro io, prima di tutti i successi e gli insuccessi: accorgersi che è tutto in gioco, che nulla è scontato o automatico, che “io” ci sono e che posso essere aperto o chiuso – ma anche solo indifferente – alla chiamata del vivere. Come una volta ha scritto María Zambrano, “l’essere umano, visto dalla sua origine, assomiglia a una ferita che non si può richiudere” (Per l’amore e per la libertà). E non si può richiudere perché quella scelta, quella sorta di primaria libertà che ci è data e sollecitata all’inizio di ogni giorno (e all’inizio di ogni momento del tempo) è il nostro modo di stare al mondo. Non come un oggetto tra gli altri, ma come un essere che è sempre “in gioco” nel suo esistere, in cui cioè (come scriveva Martin Heidegger in Essere e tempo) “ne va” ogni volta del suo essere.

Ma tutto questo non va ridotto a una teoria sull’umano, tanto meno a una spiegazione del vivere. La posta in gioco è più elementare, e per questo anche apparentemente la più scontata, sebbene non si è mai finito di impararla. Il nostro vivere porta in sé, strutturalmente, quella ferita che è la domanda sul senso. È una domanda che emerge e agisce prima ancora di formularsi in maniera esplicita; essa rappresenta come l’implicito di ogni gesto e di ogni pensiero, e tutto il lavoro della coscienza di una persona, fino al grande compito di una elaborazione culturale, sta nell’esplicitare questo interrogativo.

La pratica filosofica contemporanea l’ha teorizzato secondo due domande canoniche della tradizione cosiddetta “analitica”: che cosa c’è al mondo? E che cos’è quello che c’è? Ma queste due domande, che delineano il compito di una “ontologia” del mondo, chiedono di completarsi, meglio, di compiersi con un’altra domanda, la domanda “metafisica” che è stata teorizzata soprattutto nella tradizione fenomenologica ed ermeneutica: perché c’è quello che c’è? Perché si dà “essere” e non piuttosto il nulla?

Che questa domanda sia una ferita aperta lo attesta il fatto che ad essa non si può mai dare una risposta conclusiva: e non per partito preso scettico o relativista, non perché non ci sia risposta, ma tutt’al contrario, perché la risposta più adeguata a quell’interrogativo sta nel riaprire lo stupore di fronte al mistero dell’essere. O per dirlo con parole non più greche ma contemporanee, sfidate dal nichilismo, la risposta sta nell’avvertire ancora di nuovo lo shock di fronte al reale. E farsi percuotere.

È solo quando si ridesta un io, che alla realtà viene data una chance per dirci il suo senso. E la nostra domanda su che cosa c’è, e perché c’è, vibra più acutamente nell’interrogativo “ed io che sono?”. È questa la ferita più scabrosa, quella non rimarginabile, come l’anca slogata di un uomo – di nome Giacobbe – che ha lottato con il suo Angelo e ha vinto (Gen 32, 29). E il segno di questa vittoria è che egli porta nella sua carne la ferita del “tu”.

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