Il recente editoriale di Fernando De Haro sulla libertà porta con sé molti stimoli, in particolare su cosa sia la libertà e sul rapporto con un altro fondamento della nostra esistenza, la verità.
L’Enciclopedia Treccani definisce così la libertà: “La facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, in modo autonomo”. Una definizione che trova generale riscontro anche in altri dizionari, essenzialmente concordi nell’identificare la libertà con l’assenza di vincoli.
Infatti, la condizione opposta alla libertà è la servitù, essere dipendente da un padrone, senza la facoltà di disporre di se stessi secondo il “proprio talento e in modo autonomo”. La servitù può derivare da un atto di violenza, ma anche un tribunale può sancire la perdita della libertà perché si è violata una legge, che può però rivelarsi ingiusta. Tutto questo vale per la persona e anche per un popolo, a seguito di una guerra, per l’oppressione di un tiranno, o quando si nega la sua stessa identità, costringendoli ad identificarsi in qualcosa d’altro che ritiene esterno a sé.
Vincoli alla libertà derivano anche da cause naturali, come nel caso di malattie che possono ridurre o addirittura cancellare la facoltà di pensare e agire. Oppure a seguito di incidenti o eventi naturali, si pensi alle limitazioni imposte da un terremoto o da un’alluvione. O da una frana, come in questi giorni a Ischia.
Altri limiti alla libertà così intesa possono essere interiori, connaturati al proprio essere, a fattori fisici, caratteriali o di educazione, che rendono la persona schiava delle proprie passioni o condizionata dalla propria educazione.
La formulazione per negativo è centrale nelle definizioni correnti di libertà, focalizzate sull’ampia gamma di vincoli, costrizioni, impedimenti alla completa autonomia nell’agire. In questo modo vengono disegnati i limiti, i confini della libertà, ma non viene determinato il suo contenuto, anzi lo si rende ontologicamente relativo, perché ricondotto alla soggettività dell’individuo. Questa impostazione soggettiva porta all’esistenza di innumerevoli libertà identificabili con il volere, peraltro mutevole, dei singoli individui.
Ciò pone problemi per la convivenza e l’interazione di queste diverse libertà. L’affermazione che la mia libertà finisce dove inizia la tua (si veda, per esempio, Martin Luther King) relega la libertà in un mondo di monadi separate le une dalle altre e la cui convivenza comporta la spontanea rinuncia a una parte della propria libertà, là dove questa intacca quella degli altri.
L’alternativa è la devoluzione della definizione di libertà a un’autorità esterna, che promulghi leggi e le faccia rispettare. La libertà si traduce così in una serie di diritti assicurati da un ente esterno a sé, spostando la discussione alla legittimazione di questa entità.
Un’altra alternativa è rappresentata dall’utopia anarchica. Questa, tuttavia, finisce per imporsi anche con la violenza, in attesa del mondo finale migliore dove la libertà sarà assoluta, in una società finale perfetta. La violenta utopia, ad esempio, del comunismo.
Paradossalmente, la conclusione sembrerebbe essere che la libertà per esistere deve accettare di auto-limitarsi o di essere limitata, contraddicendo così la sua stessa definizione. Il sentirsi liberi, e lo stabilire il livello di questa libertà, vengono ricondotti alla decisione del singolo, soggetti a mutazioni all’interno della stessa persona, anche a parità di condizioni esterne.
Il relativismo appare per molti aspetti un ambito favorevole a questo concetto di libertà, in quanto, per sua natura, non pone limiti derivanti da principi assoluti e generali. Il nostro tempo è dominato dal relativismo, diffuso esplicitamente o surrettiziamente, e rende chiaro perché uno dei punti centrali del magistero di Benedetto XVI sia stata appunto la lotta al relativismo.
Tra i tratti determinanti dell’attuale relativismo vi è il tentativo di appropriarsi della morte, da sempre considerata elemento non eliminabile dall’uomo. I Greci ponevano nell’immortalità la discriminante tra divinità e umani, con la morte evento ineluttabile per questi ultimi. La morte si poteva solo anticipare togliendosi la vita: il suicidio come ultima e disperata affermazione della propria libertà, o come incapacità di sopportare se stessi o la vita in sé.
Nella cultura attuale, invece, la morte diventa un diritto individuale: se la libertà consiste nella completa autonomia di gestione della propria vita, perché dovrebbe esserne esclusa la possibilità di disporre ad libitum della sua fine? Il suicidio assistito diventa la forma pubblica del togliersi la vita, la forma legale dell’esercizio del diritto a suicidarsi, con il medico nella funzione in altri atti propria del notaio.
In parallelo anche l’aborto, da dolorosa necessità o da fuga dall’assunzione di responsabilità, passa a diritto e la libertà di scelta della madre elimina la vita, condizione essenziale per libertà del nascituro. Traduzione “femminista” dell’antico diritto di vita e di morte del padrone sullo schiavo e del pater familias romano sui figli.
Preso possesso della vita e della morte, resta da eliminare un ultimo ostacolo sulla via di questa libertà, quello del proprio corpo, ed ecco la pretesa di eliminare le differenze naturali considerate ostacolo all’esercizio della cosiddetta libertà. Con le teorie gender, le differenze fisiche tra i sessi vengono ridotto a pure sensazioni psicologiche: libertà diventa anche decidere il proprio sesso, o inventarne di nuovi, scegliendo “a proprio talento”, come recita la Treccani.
Alla fine, la libertà si concretizza in un rifiuto della realtà per come si presenta, inclusi se stessi, in una costante e inconcludente rincorsa di un qualcosa di definitivo che continua a sfuggire.
Ben diverso quanto prospettato nel Vangelo dalla dirompente frase di Gesù: “La Verità vi farà liberi”. La libertà non dipende più da noi, e in noi costretta, ma dalla verità e dalla nostra adesione ad essa. Tuttavia, come chiede Pilato, forse più a se stesso che a Gesù, cosa è la verità? La verità è un assoluto, o è o non è, per questo è difficile da accettare. La verità, a differenza della libertà, non è spezzettabile, è un tutto cui non può essere tolta una parte senza che venga meno: una verità parziale non è verità. Dalla verità non si può sfuggire, la si può accettare o rifiutare.
La domanda di Pilato indica la difficoltà di riconoscere la verità nella sua pienezza, non confinandola dentro la nostra percezione e interpretazione della realtà che ci circonda. Perciò affermare la verità come assoluta viene visto come un atto di estremismo concettuale, perché anche la verità viene ridotta a un fatto soggettivo.
La verità è “ciò che è”, la definizione che di Sé dà Dio, “Colui che è”: nel porre la Verità alla radice della libertà, Gesù parla di se stesso. Viene così ribaltato il concetto di libertà: non più affermazione della labilità del proprio io, ma riconoscimento e adesione alla Verità che ne costituisce la reale essenza. La libertà di noi esseri finiti è la dipendenza dall’Infinito che, liberamente, ci ha voluti e che continua a volerci con sé.
Nell’affermazione di Gesù ”Io sono la via, la verità, la vita” l’Infinito si fa finito per divenire la nostra via alla verità che ci porterà alla completezza della vita, quella terrena e quella del Dopo. Il Tutto nel frammento e il frammento nel Tutto. La nascita diventa un dono e la morte un passaggio, doloroso come la nascita ma che porta alla completezza. E con Paolo possiamo gridare, timorosi ma certi: “Dov’è, o Morte, il tuo pungiglione?” (1 Cor 15,55)
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