Le immagini del premier Meloni e del ministro Valditara appese a testa in giù davanti al Liceo “Carducci” di Milano sono l’ennesima sirena di allarme di un passato violento che ritorna. E che ciò accada davanti a quello che è stato il mio liceo, il liceo dei miei fratelli e di tanti amici di una ormai lunga vita, obbliga a prendere posizione. Non per fare memorialistica spicciola, ma per contribuire ad arrestare l’evoluzione di una mentalità che pare giustificare o assolvere una violenza di messaggi destinata a diventare violenza praticata.
Va detto che gli organi studenteschi del liceo hanno subito preso posizione e che il preside Andrea Di Mario ha diffuso un comunicato raro, di questi tempi, per equilibrio, nobiltà di pensiero e correttezza storica. “Continueremo come sempre e sempre più – ha assicurato il dirigente scolastico – a promuovere i valori della democrazia, della tolleranza e del pluralismo indicati nella Costituzione … il Carducci è anche una scuola di politica, perché qui gli studenti hanno la possibilità di apprendere a praticare il culto della rappresentanza, del confronto. Vogliamo farlo insieme, imparando, creando forme nuove, senza rimanere incagliati in linguaggi vecchi, logori e cupi, che alzano muri. Il carducciano è rigoroso e non accetta la logica da curva violenta”. E questo senso di appartenenza a un liceo dove in tanti ci siamo formati con fatica e con impegno è, ancora oggi sorprendente.
“Il carducciano è rigoroso”. Ripenso ai miei fratelli, ai miei amici che, forse, leggono queste mie righe e mi accorgo che è stato vero per tutti noi. Ma questo è il merito principale di quelli che furono i nostri insegnanti di allora, che hanno forgiato, si può dire, così tanti ragazzi da costruire una società civile.
Tra i tanti mi permetto di ricordare un docente straordinario, unico e inimitabile come il prof. Salvatore Guglielmino. Fortemente schierato a sinistra, irriducibilmente laico, quando spiegava Dante diventava “cattolico” perché lo era Dante, perché era leale con la materia che insegnava: in un certo vero senso, con la Divina Commedia ci faceva un catechismo cattolico di una qualità e altezza oggi quasi introvabili. E ricordo bene come esprimeva la sua indignazione per le violenze degli extraparlamentari di sinistra, ricorrenti negli anni Settanta e di cui sono stato testimone.
Ricordo benissimo due ragazzi di destra inseguiti in viale Brianza da una ventina di ragazzi di sinistra; un giovane di destra, proprio davanti al liceo che sanguinava dalla testa e nessuno che lo aiutava; una ragazzina piccolissima, sempre di destra, circondata e spintonata fuori dal liceo da almeno trenta coetanei che facevano “vigilanza antifascista”. Avevo diciassette anni ed ero di sinistra, tanto che nel 1976 votai Pci, dando la preferenza a due galantuomini come Altiero Spinelli ed Elio Quercioli. Ma il problema personale resta: a diciassette anni non feci nulla per aiutare il ragazzo che sanguinava, non ho fatto nulla per difendere la ragazzina circondata dal branco e questo perché “tanto erano di destra”. Ma il ricordo di quelle vigliaccate, mie e dei “compagni” non mi ha mai abbandonato, ispirandomi un disgusto che dura ancora oggi.
Un disgusto che ritorna oggi nella scena della rissa di Firenze e delle reazioni che ne sono seguite. Una premessa sui fatti accaduti: è stato dato scarso risalto alla testimonianza anonima di un docente del Liceo Michelangiolo, riportata in queste pagine, in cui si precisa che la rissa è stata iniziata dai collettivi di sinistra. E che questo testimone voglia rimanere anonimo la dice lunga sul clima che deve esistere nel liceo. Impressiona, nel video, vedere gli studenti guardare attoniti la scena senza provare a separare i contendenti, mentre una professoressa, con borsa e libri, si mette coraggiosamente in mezzo pur non avendo alcuna forza fisica da dispiegare.
La scena sarebbe stata già penosa senza la successiva lettera della prof. Annalisa Savino, preside dello Scientifico “Leonardo da Vinci”, che, rispetto al comunicato di Andrea Di Mario, sta come il nadir allo zenith. Dice la preside: “Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti”. Varrebbe la pena ricordare alla preside che il fascismo ha sempre praticato la violenza come forma normale e quotidiana della propria politica di sopraffazione, non in modo casuale. In ogni caso lo squadrismo fascista aveva antenati illustri come George Sorel, socialista rivoluzionario, e la violenza politica era praticata, in misura massiccia, anche dai socialisti. Meglio sarebbe stato, piuttosto che citare Gramsci, deceduto in un ospedale, ricordare Piero Gobetti, morto a soli venticinque anni per le conseguenze dei tanti pestaggi ricevuti dai fascisti ma, forse, tale amnesia deriva dal fatto che Gobetti non fosse comunista.
È da notare, inoltre, che sia il preside Di Mario sia la preside Savino parlano di “muri”; ma la preside Savino vede solo i muri di destra e non quelli di sinistra. La conseguenza è che la Savino è diventata una bandiera da sventolare alle manifestazioni, mentre nessun partito può brandire il comunicato di Di Mario; e ciò è senz’altro un bene.
Quanto all’intervento del ministro dell’Istruzione lo si può definire “inconferente” come, secondo Valditara, sono “inappropriate” le parole della Savino. Affermare che “non c’è alcun pericolo fascista” non va al cuore del problema, perché le violenze dell’estrema destra esistono e vengono condannate, mentre quelle dell’estrema sinistra trovano sempre una sponda benevola da parte di politici e intellettuali. Già negli anni Settanta abbiamo sperimentato cosa comporti essere indulgenti con la violenza. È rimasto memorabile il sostegno a Lotta Continua da parte di decine di artisti e intellettuali che firmarono una lettera aperta in cui si leggeva: “Quando essi gridano ‘lotta di classe, armiamo le masse’, lo gridiamo con loro. Quando essi si impegnano a ‘combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento’, ci impegniamo con loro”. Così centinaia di ragazzi andarono allo sbaraglio, uccidendo e venendo uccisi o imprigionati mentre i firmatari di questa letterina vivevano alla grande grazie ai propri successi professionali; e pochissimi di loro si sono pentiti di quella firma sciagurata.
La manifestazione antifascista di Firenze del 4 marzo sembra preludere, nella sua ambiguità, a una legittimazione di futuri atti di violenza da parte dell’estremismo di sinistra come sono stati ricorrenti più volte in questi anni, anche dopo la fine del terrorismo. Una sinistra boccheggiante cerca di costruire un’opposizione utilizzando qualsiasi risorsa a propria disposizione senza una visione strategica e culturale degna di questo nome. Ed è un peccato, perché proprio quel vecchio Pci degli anni Settanta, con un Enrico Berlinguer che incitava i giovani a studiare sodo e a prepararsi per cambiare la società, aveva gli anticorpi per resistere all’estremismo, come dimostra questo intervento di Giorgio Amendola (sarebbe bello sapere quanti, tra quelli che hanno votato le primarie del Pd, sappiano chi sia stato) sull’Unità del 12 giugno 1977 dal titolo “Difendere la Repubblica”. “Troppe volte, proprio nell’Università, si è lasciato libero corso alla intimidazione di piccoli gruppi, agli arbitrii imposti con la forza, al vandalismo delle distruzioni materiali, fino alle violenze esercitate contro studenti e docenti. Troppe volte si è cercato di dare discutibili spiegazioni sociologiche di certe manifestazioni chiamate ‘di rabbia’, senza vedere in tempo che esse si svolgevano consapevolmente su una linea estremista contraria ad ogni riforma della scuola, anzi contraria alla esistenza stessa di una scuola degna di questo nome”.
Vediamo se questa nuova sinistra sarà coerente con il pensiero di uno dei suoi più eroici e formidabili esponenti o lo lascerà cadere nel dimenticatoio come sta facendo da trent’anni.
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