La nuova fatica di Adriano Dell’Asta La Pace russa. La teologia politica di Putin (Morcelliana-Scholè, 2023) giunge in un momento cruciale della storia europea. Dopo quindici mesi di guerra, l’esito del conflitto tra Ucraina e Russia è quanto mai in bilico. Nessuno può onestamente prevedere quanto durerà e come finirà.



Il punto di rottura potrebbe essere raggiunto da una probabile controffensiva ucraina, ma quale schiena si spezzerà? La Russia potrebbe essere logorata dalle perdite e da una guerra fallimentare con un repentino cambio di regime al Cremlino, ma altrettanto potrebbe accadere al governo di Kiev. Tutto dipende dalla volontà di resistenza dei contendenti, ma l’anello più debole è proprio la volontà di resistenza dell’Occidente, già stanco di una guerra dalla quale è stato appena sfiorato, incerto nel fornire armi e munizioni all’Ucraina. E questo perché, in sintesi, non si è compreso appieno quale sia la posta in gioco; e questo perché non sappiamo chi siamo noi e cosa vogliamo dalla vita e ancor più ignoriamo quale sia l’ideologia di Putin e del suo “cerchio magico”.



La morte del comunismo sovietico trent’anni fa ha lasciato milioni di orfani inconsolabili: e non si tratta solo dei pittoreschi nostalgici dell’Unione Sovietica, concepita da questi come un sano contrappeso agli antipaticissimi Stati Uniti (un contrappeso, peraltro, costituito dalla carne e dal sangue di centinaia di milioni di oppressi che, appena hanno potuto sganciarsi dalla Russia, lo hanno fatto letteralmente di corsa). Sono gli orfani di destra a sorprendere per il loro comportamento.

Sono in molti, all’interno di una sterminata galassia conservatrice, a non considerare Putin un pericolo in quanto “non comunista”. Anzi: la valorizzazione della Chiesa ortodossa, sia pure in versione cesaropapista strong, la polemica contro l’ideologia gender (l’attacco all’Ucraina che, secondo Kirill è teso a impedire i gay pride) un conservatorismo patriottico che privilegia sbrigativamente la violenza verbale e fisica, un antieuropeismo barricadiero ha fatto sì che la “teologia politica di Putin” abbia affascinato milioni di italiani, dagli intellettuali più eruditi alle menti più semplici, comprese, fra queste ultime, quelle di molti politici nostrani.



In questi trent’anni senza comunismo sovietico pare (dico pare) che abbiamo perso anche la nozione di chi siamo noi e per cosa vale la pena vivere. In assenza di un nemico non abbiamo più nemmeno un volto. Ed è per questo che libri come La Pace russa, che si affianca alle opere di Michel Eltchaninoff (Nella testa di Vladimir Putin) e di Elena Kostioukovitch (Nella mente di Vladimir Putin), sono così importanti perché, dopo infinite chiacchiere televisive sulle responsabilità dell’Occidente, che pure vi sono, possiamo guardare in faccia e riconoscere chi ci odia e perché. Dell’Asta premette che il termine “mir” è ambivalente e significa “pace” o “mondo”. Il Russkij mir non ha solo un carattere geopolitico ma metafisico. “In questa versione originariamente (in corsivo nel testo) metafisico-religiosa, il mondo si rimpicciolisce (riducendosi a una nazione circondata da nemici) o si amplia (dilatandosi alle dimensioni di un impero) a seconda dello spazio che l’ideologia gli attribuisce” così che “la pace diventa guerra, al punto che non si può più pregare per la pace ma solo per la vittoria”.

Chi ama la Russia come il prof. Dell’Asta deve assistere oggi con profondo dolore alla scomparsa della vocazione universalistica di questo popolo e della sua riduzione a mero imperialismo che vede nell’Occidente il suo principale nemico. E valga, per i cattolici invaghiti del putinismo, quanto afferma l’ortodosso padre Kirill Hovorun: “l’ideologia del Russkij mir non attribuisce il secolarismo solo al mondo occidentale cattivo, ma lo attribuisce specificamente alla Chiesa cattolica, che è dalla parte del male e combatte il bene dalla cui parte sta la Russia… È pura teoria della cospirazione e del complottismo: la colpa è dell’Occidente globalizzato, di cui la Chiesa cattolica è parte, che vuole distruggere la civiltà russa”.

Di fronte a un Occidente che diventa sempre più vile e dove i suoi clercs tradiscono in numero sempre più numeroso, ripetendo il fenomeno delineato da Julien Benda negli anni Venti, esistono religiosi e studiosi russi che continuano a sfidare il potere, rischiando di persona come Andrej Zubov, docente universitario licenziato dopo la sua critica all’occupazione dell’Ucraina nel 2014. “Putin – secondo Zubov – cerca di mettere al posto del ‘mondo russo’ la guerra russa … Putin è il becchino del mondo russo”.

Il putinismo cerca di arruolare tra le sue file filosofi come Nikolaj Berdjaev e Vladimir Solovev, manipolandoli, estrapolando frasi dal loro pensiero e chi ha letto anche solo Il racconto dell’Anticristo di Solovev sa bene come questa ricostruzione putiniana sia falsa e arbitraria. Il putinismo sta avvelenando i pozzi, facendo terra bruciata della cultura umanistica russa che tanto ha dato al mondo intero. E questo col consenso proprio di quell’Occidente liberale, ateo e materialista che pretende di combattere. Si tratta di un’offensiva ideologica che supporta l’ideologia ipocrita del multipolarismo e che può essere così descritta: “Ci ribelliamo al pensiero unico secondo cui la democrazia occidentale sarebbe l’unico sistema politico degno di esistere al mondo. Ogni Paese ha le proprie tradizioni, la propria cultura, le proprie peculiarità inalienabili”: che, tradotto nella prassi, significa per i poteri autoritari poter imprigionare ed eliminare fisicamente gli oppositori senza che le democrazie rompano i cabasisi, anche perché, secondo i “chierici traditori”, non c’è molta differenza tra democrazie e dittature.

Nel capitolo dedicato all’ideologia, Dell’Asta ricorda come questa abbia causato una dura stretta della libertà di culto, il divieto di usare la parola “gay” e, nel 2017, addirittura la decriminalizzazione dell’abuso fisico in ambito domestico: praticamente, soggiungiamo, l’applicazione della dottrina del multipolarismo in ambito familiare!  Se il lettore pensa che ciò non lo riguardi più di tanto, sappia che nel Russkij mir rientrano non solo i cittadini di etnia o con cittadinanza russa ma anche gli emigrati, i fuorusciti e i loro discendenti oltre “ai cittadini stranieri che parlano russo, lo studiano o lo insegnano e tutti coloro che si interessano sinceramente della Russia e che si preoccupano del loro futuro”. Baggianate? Intanto col decreto presidenziale n. 640 del 2016 la concezione del Russkij mir viene ufficialmente integrata nella strategia di politica estera della Federazione Russa. Questa idea, precisa Dell’Asta, è stata catturata dalla Chiesa, che l’ha trasformata radicalmente così che “il fervore missionario si è trasformato in nazionalismo”. Secondo il citato Hovorun “è stata la Chiesa che ha offerto a Putin una visione nuova, una nuova lingua per il progetto imperiale”.

In realtà non si tratta di una concezione nuova in quanto va considerata come una ricaduta nell’eresia filetista, condannata dal sinodo di Costantinopoli del 1872. Nel marzo 2022 centinaia di esponenti ortodossi hanno nuovamente condannato questa dottrina come “esaltazione esclusiva e orgogliosa della differenza delle razze … una riduzione della Chiesa di Cristo a un attributo secondario della nazione dello Stato”. È proprio da questo male spirituale che sono derivate le omelie del patriarca Kirill in merito alla giustificazione della guerra in Ucraina.

Di contro a questa dottrina, oltre al mondo ortodosso, sta la posizione di papa Francesco che, nel maggio 2022, invitava a distinguere tra idee e realtà: “Le idee si discutono, la realtà si discerne” mentre, nella dottrina neofiletista, l’idea si sovrappone alla realtà violentandola. E infine, sempre citando papa Francesco a beneficio dei pacifisti a senso unico, “Difendersi è non solo lecito ma anche un’espressione di amore per la Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa non ama, invece chi difende ama” (15 settembre 2022). Ed è questo il punto finale dell’argomentazione di Dell’Asta. Cosa ama l’Occidente? Con che moralità giudica la politica? Dopo il 1989, nell’illusione della “fine della storia” abbiamo finito col “perdere l’interesse per quella libertà in cui trova spazio la questione della responsabilità”.

In questi trent’anni siamo diventati tutti più vili e più meschini, tanto da far resuscitare quello slogan abietto che era “meglio rossi che morti”. Ma già Václav Havel aveva dichiarato che chi pronunciava quella frase aveva “rinunciato alla sua umanità. Perché ha rinunciato alla capacità di garantire personalmente qualcosa che lo trascende, e così alla capacità di sacrificare – in extremis – anche la vita stessa per ciò che dà significato alla vita. Patocka una volta ha scritto che una vita che non ha volontà di sacrificarsi per ciò che le dà significato non vale la pena essere vissuta. Senza l’orizzonte del sacrificio supremo ogni sacrificio diventa insensato. Quindi niente vale niente. Niente significa niente. Il risultato è una filosofia di assoluta negazione della nostra umanità”.

E, conclude Dell’Asta, il cuore del dissenso “era invece consistito nella riscoperta di questa coscienza di comune umanità che non poteva essere negata a nessuno – neppure ai carnefici – e che aveva permesso, allora, un’uscita incruenta dal sistema sovietico e dalla sua violenza sistemica, proprio in nome del fatto che, pur portando ciascuno delle precise responsabilità personali, tutti erano identicamente uomini”.

È la lettura di pagine come queste che può far risuscitare nei nostri cuori il desiderio di una vita che valga la pena essere spesa e avversare le ideologie, qualsiasi essa sia, provenga da Oriente o da Occidente che portano a ridurci essenzialmente ad animali consumatori e produttori, docilmente pronti per il mattatoio.

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