Papa Francesco il 25 marzo consacrerà Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria. Per chiedere alla Madonna di intercedere perché cessino le ostilità e rifioriscano la pace e la concordia tra i due popoli. Una data non casuale: è la festa dell’Annunciazione, che ricorda il mistero dell’Incarnazione del Verbo. Anche il Patriarca Kirill ha chiesto a tutti i fedeli della Chiesa ortodossa russa di leggere ogni giorno in Quaresima la preghiera alla Santissima Theotokos, la Madre di Dio, per implorare il dono della pace.
Presente in entrambi i Paesi, “la tradizione ortodossa ha un legame preferenziale con la Madonna” che, “dopo Nostro Signore, ha certamente il primo posto”. Lo afferma monsignor Paolo Pezzi, da 15 anni arcivescovo cattolico di Mosca, che sottolinea come anche la sua diocesi ha un rapporto speciale con Maria, sin dal titolo. Infatti “è dedicata alla Madre di Dio per desiderio di Giovanni Paolo II, il quale intendeva in questo modo affidare tutta la Chiesa russa alla Madonna”.
Un legame radicato quindi – quello tra la Russia e la Madre di Dio – al punto che il principale luogo di culto cattolico di Mosca è la cattedrale dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, riaperta al culto 25 anni fa, dopo essere stata chiusa in epoca staliniana e poi adibita a magazzino e ostello. Alla devozione mariana, anche con riferimenti alla sua storia personale (“da bambino sul mio letto era affissa un’immagine della Vergine, cui mi rivolgevo prima di andare a dormire”) monsignor Pezzi dedica diverse pagine del libro autobiografico La piccola Chiesa nella grande Russia. La mia vita, la mia missione (Ares, 2022), in cui risponde alle domande del giornalista Riccardo Maccioni. Scritta prima dell’invasione russa, l’autobiografia, pervasa da una profonda spiritualità, è fortemente condizionata dal crescere della tensione negli ultimi mesi e offre elementi preziosi di riflessione.
Romagnolo, nato in provincia di Ravenna, Paolo Pezzi, 61 anni, abbraccia la vocazione sacerdotale dopo l’incontro con la Fraternità di San Carlo Borromeo, che tre anni dopo l’ordinazione lo manda in missione in Siberia. Era il 12 settembre 1993. Tranne un intervallo di cinque anni tra il 1998 e il 2003, in cui torna in Italia, da allora la Russia è la sua seconda patria. Un’esperienza non facile ma entusiasmante, che gli cambia la vita. Nel 2007, dopo aver insegnato ed essere stato rettore per un anno del Seminario maggiore Maria Regina degli Apostoli di San Pietroburgo, viene nominato a sorpresa da Benedetto XVI arcivescovo cattolico di Mosca, primo italiano. Mai don Paolo avrebbe pensato di diventare il pastore della diocesi russa più importante, guida spirituale di poco meno di 200mila fedeli dispersi in un vasto territorio ampio sette volte l’Italia. La comunità cattolica in Russia è composita, distribuita tra molte nazionalità: oltre a russi, ci sono le minoranze tedesca e armena, ma anche coreani, vietnamiti e altri, compresi gli ucraini. Pezzi abbraccia tutti, da vero pastore.
Nella drammatica situazione attuale, proprio il fatto che molti fedeli della diocesi abbiano parenti o amici che vivono in Ucraina è motivo di grande sofferenza per l’arcivescovo. “Improvvisamente si è cominciato a considerare gli altri come nemici solo perché si trovavano in Russia o in Ucraina”. Scrive Pezzi: “Ho ascoltato racconti molto dolorosi di genitori che avevano deciso di interrompere i rapporti con i figli per il semplice fatto che vivevano nel Paese ‘sbagliato’”. Ma proprio questa inaspettata circostanza “ ha permesso di andare a fondo sul senso della vita, sull’importanza della fede, sui rapporti familiari e all’interno della comunità”, fino a interrogarsi su cosa realmente può unire. “Se basta un conflitto per creare divisioni, allora non abbiamo scoperto o riscoperto la Risurrezione di Cristo, che cioè Gesù è un fattore reale e contemporaneo capace di superare le fratture”. È invece decisiva “la riscoperta di essere in Cristo una cosa sola, per avere speranza, per ritrovare la voglio di continuare, di non mollare”, ritrovando anche “la capacità ‘lieta’ di offrire queste sofferenze”.
L’arcivescovo di Mosca descrive nella sua autobiografia un episodio esemplare accaduto nei primi anni di permanenza in Russia, quando si trovava a Tal’menka, cittadina al confine tra le regioni di Novosibirsk e dell’Altaj. “Vi andai per sostituire il parroco”, scrive, “e, arrivando dopo la Messa, le suore che prestavano servizio lì mi dissero che c’era una signora anziana che aveva grandi difficoltà a muoversi, chiedendomi di andare a casa sua per confessarla e portarle l’Eucaristia. Lo feci molto volentieri. Durante il tragitto a piedi, la suora che mi accompagnava mi disse che quella signora aveva sofferto molto, e che le avevano ucciso in casa due figli davanti agli occhi. Io, giovane sacerdote un po’ saputello, dopo averla confessata e comunicata, non resistetti e le chiesi che cosa pensasse di Stalin. Questa vecchietta mi guardò negli occhi e mi disse: ‘Cosa penso? Guardi che io l’ho perdonato tanti anni fa, perché se non si perdona non si vive più’”.
Parole rimaste nel cuore di don Paolo, che oggi ribadisce che “non si può fare a meno gli uni degli altri” e compito della Chiesa è essere “aperta in modo forte al dialogo e all’incontro con il mondo”. Soprattutto in questo momento storico in cui, anche a causa della pandemia, si è diffuso un clima di paura, sospetto, sfiducia. “Il rischio è la diminuzione di umanità”, che non porta a “un incremento di fraternità ma al contrario di non fraternità, di non amicizia”. Occorre “riappropriarci del punto di vista di Dio, che è valorizzatore dell’altro, uno sguardo positivo non basato sul sospetto ma sulla fiducia, sulla certezza che l’altro è comunque un ‘bene’”. Uno dei capitoli del libro inizia con questa citazione di padre Alexandr Men’ (1935-1990), ucciso da un ignoto assassino mentre si recava a celebrare la Divina Liturgia: “Tutte le divisioni hanno un’origine umana, mentre agli occhi di Dio siamo tutti suoi figli, redenti dal sangue di Cristo”.
Di fronte alla complessa e drammatica realtà in cui ci troviamo a vivere, monsignor Pezzi ci invita a meditare sul fatto che, anche se “Cristo risorgendo ha vinto definitivamente il male”, ciò non porta alla “eliminazione della possibilità del male di esserci, di operare. E nemmeno vuol dire, la storia lo insegna, che vada matematicamente e progressivamente diminuendo. Anzi, Gesù stesso ci ha ricordato che ci saranno epoche in cui si verificherà l’apparenza della vittoria del male”. E aggiunge: “Noi qui sulla terra siamo in un cammino fatto di luci ma anche di tante ombre. Significa entusiasmo, ma anche difficoltà fino alla disperazione, croci, senso di abbandono, profonda delusione, percezione di inutilità, errore, peccato, sconfitta”. Ma “Cristo non ha detto che il cammino ci avrebbe risparmiato tutto questo, ma che chi lo segue avrà la vita eterna, la certezza della definitiva vittoria sul male e il centuplo quaggiù”.
La conclusione del libro è splendida. “Tutto nasce dal sorriso di Dio, e lì termina. La vita è la più meravigliosa delle avventure, alla ricerca continua di quel sorriso che ci accompagna. Perché è la nostra vocazione”.
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