Bernard Foy ha passato da poco i quarant’anni ed è felicemente sposato. Vent’anni prima, in guerra, ha perso entrambe le mani saltando su una mina. Vivo per miracolo, ha imparato a convivere con la sua menomazione, e la sua intera vita si svolge nel piccolo e confortevole appartamento parigino dove aspetta, per tutto il giorno, che la moglie Nelly torni dal lavoro. Nelle lunghe ore di solitudine fa la spesa – e nei negozi del quartiere lo conoscono tutti –, decora abat-jour, ma soprattutto fantastica e immagina: immagina la vita che sua moglie conduce fuori casa, e l’esistenza degli inquilini del palazzo, di cui conosce a perfezione routine e abitudini. Questo il plot del nuovo Simenon in libreria per Adelphi, La porta (trad. di Laura Frausin Guarino, 2024), apparso nel 1962. Un romanzo cupo, cupissimo, dove la catastrofe, ovviamente, è in agguato, e detonerà implacabilmente. La porta del titolo è quella della casa del nuovo inquilino del palazzo, un giovane illustratore e vignettista, fratello di una collega di Nelly, inchiodato sulla sedia a rotelle dalla polio. Quella casa, e quella porta socchiusa, oltre la quale Bernard immagina e anela di vedere, diventano  per l’uomo una sorta di ossessione.



Il racconto scorre implacabile, lungo i rodatissimi binari della prosa simenoniana, lineare e secca, nella quale non c’è mai una parola di troppo, e dove basta poco per delineare un’atmosfera greve e vischiosa come quella di certi ambienti dove non entra mai il sole e dove l’aria è pesante, e sa di costrizione e pensieri fissi.



In effetti, oltre che dalla porta della casa del vicino, con tutto quello che significa, Bernard è altrettanto ossessionato dalla moglie; o, per meglio dire, l’amore che egli prova per Nelly è assoluto, esclusivo: di lei vorrebbe sapere tutto, conoscere tutto, sapere che la donna esiste solo per lui, soltanto per lui. È proprio questo amore e questo bisogno di possesso così radicale ciò da cui tutto inizia. E se, quando Bernard l’ha conosciuta, Nelly era una diciottenne senza fianchi né seno, che lavorava come maschera nel cinema frequentato da Bernard, all’epoca soldato di leva, dopo vent’anni, Nelly è forse diventata ancora più bella, più desiderabile: e quella bellezza, quella freschezza, preoccupano sempre più il marito: “Per la verità, aveva scoperto da poco che Nelly era bella, o graziosa, comunque più attraente a trentotto anni che a venti. Non dava più l’impressione di una ragazza scontrosa ma, al contrario, di una giovane signora dolce e rotondetta, dal sorriso allegro e rasserenante. Era possibile che per tutti quegli anni lei fosse stata felice con lui e che lo fosse ancora? Stentava a crederlo e se ne tormentava (…)”.



Non è semplice gelosia, quella che tormenta Bernard: certo, la sua menomazione lo ha portato non solo a condurre una vita schiva e appartata, ma a diventare ombroso e riflessivo oltre ogni dire; poco dopo la fine della guerra, quando Parigi esplodeva di gioia, quando “feste e balli si alternavano alle parate nel sole e i soldati americani davano la caccia alle ragazze nelle strade” e “l’aria che respiravano era carica di sensualità”, al giovane marito era capitato di pensare che, in fondo, sua  moglie era una ragazza sana, piena di vita, e lui non avrebbe certo potuto biasimarla se avesse voluto, almeno per un istante, vivere un flirt con un ragazzo che poteva fare cose normalissime, ma a Bernard precluse, come abbracciarla, accarezzarle la guancia, stringerle la mano. “Sarebbe rimasto il marito, il compagno, l’uomo che lei amava. E ogni volta lei sarebbe tornata da lui. Sarebbe tornata tutte le sere”.

Nelly, invece, si è sempre detta perfettamente felice, innamorata di Bernard e appagata di quella vita così quieta e intima, tutta costruita su misura per loro, per i loro piccoli riti e abitudini. Ma adesso, adesso che nel palazzo è venuto ad abitare quel giovane illustratore, Mazeron, la curiosità sembra divorare Bernard, senza dargli pace: occhieggiando dal pianerottolo attraverso la porta accostata, Foy ha visto “pareti di un giallo brillante, che davano al locale un che di fresco e di allegro. Aveva fatto in tempo a notare un lunghissimo tavolo in legno bianco, o meglio dei cavalletti che reggevano un piano sul quale erano poggiati oggetti disparati”.

E pensare che Bernard si era fatto l’idea che quell’appartamento, dove era deceduto da poco un anziano inquilino che quasi non uscita più di casa, fosse scuro e lugubre. Invece, con enorme sorpresa, Foy “aveva l’impressione di un interno non come gli altri, non come il loro, per esempio, di un ambiente in cui gli oggetti non avevano un posto stabilito e in cui la vita poteva scorrere liberamente, secondo l’estro del momento. Era, soprattutto e in modo sorprendente, un appartamento allegro, forse, addirittura, il più allegro del palazzo: un posto dove doveva essere divertente e bello vivere, “in un disordine pittoresco che rendeva leggeva l’esistenza”.

Ed ecco, dunque, che i pensieri di Foy si concentrano, e girano vorticosamente e ossessivamente, attorno a questo punto: sino alla tragedia, che immancabile, non potrà non concludere il racconto.

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