L’articolo continua la riflessione dell’autore sul pensiero di Seneca, iniziata a Brescia nell’ambito del “Mese letterario” 2019 organizzato dalla Fondazione San Benedetto.
Le cose non vanno quasi mai come vorremmo; non potendo cambiarle, ci tocca adeguarci: “disponiamo dunque il nostro animo in modo da volere tutto ciò che le circostanze esigeranno”. L’eroismo di Seneca, che non si esalta e non si abbatte, tocca il culmine della grandezza umana, dal punto di vista morale e anche mentale. Il saggio stoico è uno che sa perdere: non si lamenta dell’arbitro né dell’avversario; suda fino al novantesimo, “capace di sopportare allo stesso modo i pugni e i calci di più di un avversario”, realisticamente consapevole che le partite si vincono e si perdono.
Ci sono notti, però, in cui le sconfitte bruciano; fondi segreti in cui convincersi che “tutto avviene per decisione divina” e che “la sventura è occasione di virtù” (“calamitas virtutis occasio est”) si rivela nulla più che una innocua consolatio. Seneca ne ha scritti tre, di libri consolatori. Ma “chi si rassegna” – ha acutamente osservato Maria Zambrano – “si ritira, in un certo modo, dalla vita”. La “patientia” infatti evita lo scontro frontale con la disperazione, lasciando inevasa la domanda di senso: “perché allora capitano tante sventure alle brave persone?”. La sentenza provvidenzialistica dovrebbe appagarci: “Dio ha verso gli uomini virtuosi l’animo di un padre, e li ama profondamente e dice: ‘Siano sempre pungolati dalle fatiche, dai dolori, dalle sofferenze, perché possano acquistare la vera forza’”. Sembra cristianesimo, ma è paganesimo; sembra buon senso, ma è stoicismo.
La falla di ogni filosofia, però, è che si tratta soltanto di una filosofia. “Piangere, lamentarsi, gemere non è altro che una ribellione”; “bisogna accettare tutto con coraggio” (“fortiter omne patiendum est”): il costrutto latino si chiama perifrastica passiva, e – come sa chi ha frequentato il liceo – implica un’idea di dovere. Di fronte al feroce assalto della realtà, il cuore tramortito deve corazzarsi dietro il baluardo di una virtù (sintetizzabile nell’“o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”) e irrigidire i muscoli per erigere la nobile roccaforte di una risposta anziché riconoscersi come l’impaziente travaglio di una domanda.
Ma la poesia – come la vita – non sopporta la perifrastica, è allergica ai verbi “bisogna” e “dovere”, perché l’animo non regge, la ragione non spiega le cose e il cuore non trova pace. In un campo di concentramento Elie Wiesel se la scrollò di dosso: “‘Sia Benedetto il Nome dell’Eterno!’. Migliaia di bocche ripetevano la benedizione, si piegavano come alberi nella tempesta. “Sia Benedetto il Nome dell’Eterno!”. Ma perché, ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte?”.
Dentro l’anima restano conficcati interrogativi irrisolti, alla faccia dell’”inexpugnabilis murus” con cui le sue idee più alte la circondano. “Siamo nati in un regno: la libertà consiste nell’obbedire a Dio”: una simile raccomandazione si sgretola nell’asfissiante sgomento che il re dell’universo governa peggio di Nerone, riproducendo il corso storico su scala cosmica. La realtà, intanto, continua a prenderci a schiaffi. “Ma cosa deve fare il saggio se gli capita di prendersi uno schiaffo? Quanto fece Catone in una circostanza simile: non diede in escandescenze, non vendicò l’offesa ma neppure la perdonò; negò di averla subita”. Uno schiaffo, tuttavia, lascia segni, al di là della magnanimità con cui sappiamo prenderli. Siamo al paradosso che, per fare i conti con la realtà, dovremmo negarla: qui la saggezza va a sbattere contro il suo stesso muro.
Nel frattempo, quando Seneca aveva trentatré anni, proprio uno schiaffo, anzi un Dio schiaffeggiato, mandò all’aria le visioni provvidenzialistiche: “gli stoici, antichi e moderni, erano fieri di nascondere le loro lacrime. Egli [Gesù] non ha mai nascosto le sue lacrime; le ha mostrate apertamente sul suo viso di fronte a ogni spettacolo quotidiano, come alla lontana vista della sua città natale” (G.K. Chesterton). Davanti a Gesù, “maestro e fratello e Dio che ci sai deboli”, Ungaretti non ha avuto vergogna di piangere come un bambino: “D’un pianto solo mio non piango più, / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri”. È così, riusciamo a trattenere stoicamente le lacrime finché non ci troviamo davanti a qualcuno che ci conosce: lì scoppiamo.
È ancora Maria Zambrano a notare che “niente è più antisenechista del lamento di Giobbe, che chiede spiegazioni alla divinità. Seneca non aveva nessuno a cui chiedere spiegazioni. La ragione impersonale non lascia spazio a nessuna domanda sulle sue ingiustizie”. Del resto, come avrebbe potuto immaginare un dio che fosse altro dall’“intelligenza dell’universo” (“Quid est deus? Mens universi”)? Il Dio cristiano ha sparigliato le carte: “stoltezza per i pagani”, sulla croce non ha resistito stoicamente, ma tutt’altro che sereno ha gridato “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
L’intuizione di Chesterton è fulminante: “solo il cristianesimo ha sentito che Dio, per essere interamente Dio, doveva essere tanto un ribelle quanto un re”. L’uomo sottomesso ai re e alla sua capacità di non ribellarsi udì dalla croce “il grido in cui Dio confessava di essere stato abbandonato da Dio”. E noi nani, se vogliamo salvare le nostre domande e perfino il nostro ateismo, siamo eredi di una fortuna che il gigante Seneca non sospettava: esiste “una sola religione in cui Dio sia parso per un istante un ateo”. Egli non poteva che sospirare d’incompiutezza, come tutti i geni del limbo dantesco, perché “ciò che c’è di più grande al mondo, Dio, ci sfugge!”: in Sua assenza, non resta che consolare l’uomo.
Il cristianesimo, piuttosto che infilare nelle tasche della gente una nuova consolazione, ha sciolto la rigidità con cui il mondo classico provava grandiosamente a risolvere in proprio il problema umano “sopportandone il fardello”: simpatizzando per la domanda irrisolta, che si libera solo nella certezza di un interlocutore. Papa Francesco è stato chiarissimo: i bambini “dicono: ma perché, perché? e quando il papà o la mamma comincia a spiegargli, subito aggiungono un altro perché, non ascoltano la risposta”, perché “la vera risposta che cerca un bambino con i perché non è quello che dice il papà o la mamma, ma lo sguardo del papà e della mamma”. La risposta non è una perifrastica, ma una presenza che abbraccia la nostra ribellione inconsolabile.
(2 – fine)