La prima nota rivendicazione di un diritto, nella specie di libertà, è rinvenuta nell’Antico Testamento, allorché Eva, donna evidentemente erudita, emancipata e politicamente scorretta, convinse Adamo a cogliere il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, oggetto di specifico divieto niente meno che del Signore in persona.



È vero che recentemente si è disquisito a lungo sul fatto che il frutto richiamato nella Genesi 2, 16-17, non fosse la mela, frutto secondo alcuni di un errore di traduzione dal latino all’italiano del termine “malus-malum” che indica sia il male che la mela – evidentemente anche all’epoca esisteva il virus dell’uno vale uno –, sorvoliamo anche sulla suggestiva idea che il frutto fosse in realtà l’uva, il cui abuso fermentato avrebbe fatto comprendere meglio il divieto del Signore per la possibile confusione del bene col male.



Il tema interessante, in questa sede, è semmai la necessità che per il riconoscimento, o meglio il disconoscimento di un diritto, è intervenuto l’Altissimo che quel divieto aveva direttamente posto.

Le conseguenze di questa complessa articolazione esplicitata nella violazione di un dovere e nel riconoscimento processuale della sanzione fu meglio apprezzata all’indomani della prima rivoluzione umana, la rivoluzione agricola, databile nell’8000 a.C. Con la rivoluzione agricola, l’uomo cacciatore-raccoglitore evolve, dà luogo ad assembramenti più numerosi, scopre la specializzazione delle attività per la sopravvivenza e inventa il lavoro.



La realizzazione di più ampi assembramenti aumenta i pericoli – come avremmo avuto modo di scoprire qualche millennio dopo –, genera la necessità di regole sociali via via più complesse, di tecnologie come la scrittura per renderle più oggettive e di una magistratura – inizialmente per lo più esoterica e affidata a sacerdoti e sciamani – per l’amministrazione.

In buona sostanza, i diritti per il loro concreto funzionamento hanno bisogno di un efficiente apparato amministrativo e burocratico. Inizialmente questa complicazione burocratica si avvertì poco, in quanto il diritto era spesso associato a regole di natura e queste erano spesso tutt’uno con i precetti religiosi. Mi sia perdonata se non la semplificazione, almeno l’accusa di blasfemia.

Ciò che qui si vuole estremizzare è il fatto che il diritto, nella sua accezione ambivalente sia di regola a carattere generale che di aspettativa di riconoscimento di giustizia per chi lamenta che altri componenti della comunità abbiano leso le proprie prerogative, inizialmente funziona alla grande, in quanto il precetto regolatorio, oggi diremmo normativo, è prima precetto di fede, sia esso religioso che naturale.

Il precetto di fede viene rispettato dalla comunità in quanto tale e non ha particolari necessità amministrative per il riconoscimento della punizione o del riequilibrio della violazione e quando queste esigenze si palesano, sono eccezioni residuali.

Il problema è che il diritto evolve e si complica, con l’evolversi della complessità della società. Il secolo dei Lumi, ad esempio, pose le basi non solo per la nascita della seconda grande rivoluzione, quella industriale, ma con la sostituzione della classe egemone la borghesia capitalista, che prese il posto dell’aristocrazia terriera, si modificarono anche valori, conoscenze e complessità. In poco tempo assisteremo alla separazione del diritto, inteso come regola, dal precetto religioso e con lo sviluppo della tecnologia che affermò la percezione di un dominio umano sulla natura anche il superamento del rispetto delle norme cosiddette naturali. Nasce il tempo.

L’invenzione del vapore, dell’elettricità, della locomotiva e delle navi accelerò non solo i viaggi ed i trasporti, ma anche la necessità di avere un tempo convenzionale. La Conferenza internazionale dei meridiani – Washington 1884 – con la creazione di un meridiano standard, il sobborgo di Londra dove era presente un noto osservatorio astronomico, Greenwich, pose le basi non solo per la creazione di un meridiano 0 comune, ma soprattutto pose le basi per la nascita di un tempo standard, il tempo coordinato universale.

Con la nascita del tempo, iniziò anche la sua accelerazione. “Il tempo è denaro” affermò Benjamin Franklin nel suo saggio Consiglio ad un giovane imprenditore, e, anche se la frase fu rubata a Sir Francis Bacon, rappresentò perfettamente la nuova sensibilità della società della rivoluzione industriale che il tempo è un bene economico e non va sprecato. L’accelerazione del tempo divenne anche valore estetico con il futurismo italiano, “la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità”.

La terza rivoluzione umana, la rivoluzione digitale, ha reso più evidente questa accelerazione del tempo. Viviamo in un tempo in cui tutto è accelerato, persino la risposta al collegamento del nostro personal computer o del nostro cellulare ad internet ci sembra lenta se non risponde in tempo reale. Anche l’uso dell’allocuzione “tempo reale” è evocativa: il tempo è reale se più veloce. La rivoluzione digitale ci ha portato in dote non solo l’accelerazione del tempo, ma anche l’interconnessione e come effetto – qualcuno direbbe danno – collaterale, la globalizzazione.

Senza dilungarci troppo in riflessioni filosofiche è indubbio che il combinato disposto di interconnessione, accelerazione del tempo e globalizzazione hanno contribuito non poco all’incremento della complessità e alla inevitabile interdipendenza delle società moderne. Ma incremento di complessità e interdipendenza hanno come contrappasso, come rovescio della medaglia un prezzo, la crescente fragilità delle società digitali.

Su tutti basti un semplice esempio: se qualche decennio fa avessimo avuto un blackout elettrico, i danni collaterali di una società meno complessa e interdipendente e più autosufficiente sarebbero stati minimi. L’impossibilità di far funzionare gli elettrodomestici, la necessità di qualche candela di cera per illuminare la casa, e così via, senza particolari problemi.

I danni prodotti e producibili, oggi, da un’interruzione generalizzata della corrente elettrica sarebbero inimmaginabili. Non parlo dell’interruzione delle transazioni di Borsa e finanziarie, nell’epoca attuale della ricerca del tempo assoluto che genererebbero perdite di valore per miliardi di euro o dollari, nei sistemi complessi che regolano la finanza, ma più semplicemente dell’interruzione dei sistemi di regolazione del traffico aereo, navale e automobilistico, della catena del freddo alimentare, delle transazioni e dei pagamenti e così via.

A chi ha vissuto l’epoca precedente all’invenzione e alla diffusione del telefono cellulare non sarà sfuggito il sentimento di spaesamento e l’oggettiva difficoltà quotidiana che genera la perdita o l’assenza temporanea del dispositivo palmare, anche se paradossalmente, in passato abbiamo vissuto tranquillamente senza.

Al di là dei toni volutamente esagerati l’intenzione non è quella di giustificare temerarie e inutili campagne contro la modernità, che al di là di eccessi e distorsioni critiche rappresenta ed ha rappresentato e prodotto, sempre, sviluppi economici e sociali positivi. L’intenzione è semmai quella di spostare l’attenzione sulle criticità generate dal blocco o dal ritardo di una parte degli elementi dell’ormai rete globale in una società sempre più reticolare, interconnessa e interdipendente.

Per restare nell’attualità, abbiamo visto recentemente come la protesta pacifica di una parte dei portuali di Trieste abbia realisticamente scatenato la (legittima) apprensione di vedere bloccato un fondamentale nodo di interscambio economico di merci e servizi. Insomma, abbiamo dato vita al famoso paradosso del granello di sabbia che grippa i complessi meccanismi di funzionamento degli ingranaggi economici e sociali delle moderne società digitali globali. Come far fronte, o meglio limitare, la pericolosa deriva della fragilità che le piccole parti, le minoranze depositarie di piccoli presìdi corporativi, possano mettere in discussione il funzionamento del sistema?

La risposta a quesiti così ampi e complessi non può essere semplificata a rischio di banalizzare il problema. Vi sono però delle direttrici, degli strumenti, dei comportamenti che cambiando paradigma sociale (ed economico) possono fornire delle soluzioni più aderenti ai quesiti che la modernità, la velocità e l’interdipendenza sociale ci pongono.

È indubbio che il recupero di una condivisione di valori cooperativi renderebbe la fragilità intrinseca delle moderne società digitali, globali, accelerate e interconnesse meno problematica. Anche in natura, nella biologia, gli organismi che si basano su sistemi cooperativi sono vincenti.  Ed è altrettanto indubbio che sotto questo profilo una comunità che si basa sui doveri funziona meglio di una comunità che si fonda sui diritti.

Chiunque, senza scomodare raffinati giuristi o filosofi, conosce che il diritto e il dovere sono due facce della stessa medaglia, due concetti che si sposano, ma che possono essere anche autosufficienti. Semplificando e cercando di non banalizzare troppo, a ben vedere però i due concetti hanno profili e contenuti affatto diversi.

Il diritto senza il dovere, oltre ad avere la necessità di un apparato burocratico complesso per il riconoscimento del proprio perimetro, necessita di maggiori risorse e tempo. Il tempo necessario all’apparato burocratico di esercitare le proprie prerogative di giustizia. Risorse e tempi non sempre disponibili e coerenti, con le società complesse, accelerate e interdipendenti, che pongono continuamente quesiti e arbitraggi che non possono essere solo risolti dalla forza. Forza che può essere anche rappresentata dalla capacità di interdizione di piccoli gruppi o segmenti della rete che sono in grado di bloccare tutto il complesso meccanismo economico e sociale, ormai interconnesso, globale, accelerato e interdipendente. Siamo giunti, allora, al tramonto della supremazia dei diritti nelle società della rivoluzione digitale?

Non esageriamo con le provocazioni, ma poniamoci il problema che sempre più spesso lo sviluppo della complessità dei rapporti economici e sociali rende necessari continui aggiustamenti e arbitraggi non sempre tempestivi e coerenti con la complessità dei sistemi economici e sociali che l’interdipendenza e l’accelerazione del tempo ci hanno imposto come portato della moderna rivoluzione digitale.

La domanda, allora, potrebbe essere proposta in altri termini: come rispondere all’obsolescenza dei meccanismi di riconoscimento dei diritti? Facendo ricorso, sviluppando più e meglio gli strumenti operativi, educativi e amministrativi dell’altra categoria concettuale che governa il complesso vivere civile: il dovere.

Il dovere presenta alcune caratteristiche distintive rispetto al diritto che lo rendono più agile e utilizzabile, anche come categoria generale. Anzitutto, l’autosufficienza. Il dovere è di per sé funzionante, e aggiungeremo noi, funzionale al funzionamento delle moderne società interdipendenti. E’ proattivo, in quanto non paralizza il normale fluire dei processi siano essi politici, economici o sociali, in attesa degli esiti dell’arbitraggio comunque necessario.

Le comunità che funzionano sui doveri si attivano di per sé e non attendono paralizzate il riconoscimento delle proprie prerogative che spesso necessitano di apparati decisori lenti e complessi se paragonati al tempo reale delle società digitali. Una comunità fondata sui doveri ha minor bisogno di continui micro-meccanismi di arbitraggio a carattere rivendicativo e spesso paralizzante. Certo, necessita di comportamenti simmetrici e anch’essa di meccanismi regolatori terzi, ma in ogni caso più funzionali alle moderne società accelerate e interdipendenti.

Sarebbe auspicabile una riflessione profonda sul punto, non solo pedagogica o educativa che già raggiungerebbe comunque un risultato, ma soprattutto una riflessione sulla necessità di un sempre maggior utilizzo di interventi regolatori che si basassero sul dovere. Il dovere di astenersi se si provoca un danno, il dovere di attivarsi se la mia inerzia blocca l’ordinato svolgimento di una attività di interesse generale.

Le moderne società interconnesse e interdipendenti funzionerebbero meglio se basate sul riconoscimento del proprio dovere individuale e collettivo. Non sarebbe complesso, ma probabilmente necessario ripensare norme, provvedimenti, processi organizzativi e comportamenti orientati al dovere.

Senza facili ottimismi o superficiali entusiasmi, è possibile affermare che le comunità che funzionano sul dovere funzionano di più e meglio, a condizione di dimenticare ciò che ci hanno insegnato Oscar Wilde (“il dovere è ciò che pretendiamo dal prossimo, non quello che facciamo noi”) e Marcel Proust (“l’istinto detta il dovere e l’intelligenza fornisce i pretesti per eluderlo”) e di tenere a mente ciò che ci ha suggerito G.B. Shaw: “quando uno stupido fa qualcosa di cui si vergogna, dice sempre che è suo dovere”.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI