Prima autrice asiatica ad aggiudicarsi il prestigioso riconoscimento, la cinquantenne Han Kang è stata premiata quest’anno dall’Accademia di Svezia “per la sua intensa prosa poetica che affronta le ferite della Storia e mostra la fragilità della vita umana”. Chi ha letto qualcuno dei suoi libri sa che la Corea del Sud, quella ritenuta “buona”, che corre spedita verso un progresso che appare inarrestabile, ha i suoi scheletri nell’armadio. Benché sia giunta alla sua Sesta Repubblica e si dichiari ufficialmente democratica, ha subito diversi colpi di Stato e ha vissuto lunghi periodi di legge marziale, proprio come quella che è stata dichiarata e poi subito ritirata nei giorni scorsi. Del resto la sua storia recente è stata sempre dolorosa e irta di difficoltà.



La Corea infatti, liberata dallo spietato dominio coloniale giapponese (era stata annessa al Giappone nel 1910), con la fine della Seconda guerra mondiale è subito precipitata  nella lotta civile tra il Nord, sostenuto dalle due potenze comuniste URSS e Cina, e il Sud, strettamente legato agli Usa e ai suoi interessi strategici nel Pacifico. Insomma, diventa una vittima della Guerra fredda, che la condanna alla divisione del suo territorio lungo il 38° parallelo, un “muro” che separa le due Coree ancora oggi. Tutti sappiamo che la Corea del Nord è un regime autoritario durissimo, guidato dal dispotico Kim Jong-un, come ci documenta anche l’impressionante biografia Fuga dal Campo 14 che racconta la storia dell’esule Shin Dong Hyuk, nato in un campo di prigionia del regime di Pyongyang  e riuscito miracolosamente a scappare. Ma delle tragiche vicende del Sud, per noi scintillante nella sua avanzata tecnologia e moderno persino nella musica (pensiamo alla famosissima band BTS), conosciamo davvero poco. Per esempio non ci è arrivata notizia della tragica “Tienanmen coreana” del 1980, ripercorsa con struggimento e strazio commovente proprio in un romanzo della vincitrice del Nobel, Atti umani.



La scrittrice racconta l’eccidio di Gwangju, città in cui lei stessa è nata e cresciuta e dove si è compiuto il massacro di centinaia di studenti e civili in seguito a una rivolta popolare, su cui si è documentata puntigliosamente. Indaga quel terribile eccidio, a lungo censurato e nascosto alla comunità internazionale, riportando in scena i protagonisti scomparsi e i giovani sopravvissuti, che pietosamente cercano di comporre i corpi dei morti allineati senza rispetto nella palestra comunale. Le autorità vogliono far sparire in fretta le bare, quasi a cancellare per sempre la memoria del sangue versato. Ma lei, Han Kang, ostinatamente si impegna a far rivivere quell’orrore e insieme intende richiamare la necessità del ricordo, perché tutta quella violenza cessi di angosciare il suo popolo. Violenza che invece continua anche dopo il massacro, con il carcere, le sevizie e le delazioni. Un dolore senza fine come solo l’animo orientale può sopportare, ma che il futuro premio Nobel si rifiuta di dimenticare, perché il male lascia il segno. Nei superstiti sembra condurre all’annientamento. Uno dei personaggi del romanzo ammette: “Combatto con l’inferno a cui sono sopravvissuto. Combatto con la mia stessa natura umana. Combatto con l’idea che la morte sia l’unico modo di sottrarmi ad essa”.



Anche nel più recente romanzo della scrittrice coreana, Non dico addio, è evidente l’esigenza da lei dichiarata con decisione, malgrado la mitezza del suo carattere, di non nascondere neppure gli orrori più indicibili. Per questo si affida ai sogni ricorrenti di tronchi neri, alla visione di tombe coperte dalle onde del mare e alla tanta neve che tutto raggela e offusca, che segnano il tormento della protagonista Gyeong-ha, la donna che ha il compito di raccontare tante uccisioni ingiuste e cancellate. In questo caso si tratta del massacro di civili, accusati di essere comunisti, dell’isola di Jeju-do, avvenuto tra il 1948 e il 1949, che chiede di essere riscoperto e narrato, accettato e forse perdonato, malgrado lo strazio incancellabile. La verità deve essere ricostruita per non soccombere alla violenza, alla vergogna, all’ingiustizia. Tuttavia l’amaro resoconto, che sprofonda  nell’abisso della memoria, in una dimensione poetico-onirica ma crudamente dettagliata, ci martella con la sua tendenza tragica alla dissoluzione, anche se l’autrice ha dichiarato: “Voglio credere che questo sia un libro sull’amore estremo”.

Già nel suo romanzo più noto in Italia, La vegetariana (che nulla ha a che fare con una riduttiva interpretazione green, tipicamente occidentale), la protagonista che decide di rifiutare la carne si isolerà a tal punto dal mondo da dissolversi nell’indifferenza di un’esistenza vegetale, unica via per allontanarsi dalla violenza che purtroppo caratterizza  l’umanità. Un distacco progressivo dalla vita il suo, che pare prefigurare la denuncia ossessiva del male dominante dei romanzi prima citati e che, nella sua inspiegabile determinazione, ci svela lo spirito nichilista orientale.

Per noi occidentali i libri della Kang sono profondi, poetici, ma estremamente duri e stranianti proprio per quell’opposizione assoluta al male che, attraverso il racconto, sembra farci sprofondare sempre più in esso, senza possibilità di riscatto. È una disperazione fisica e morale che ci sgomenta, la medesima che pervade la memoria delle tragedie storiche vissute dal popolo coreano e cancellate maldestramente dalle sue autorità.

Manca quella speranza che rende l’uomo capace di sopportare con coraggio il peso dell’orrore e del dolore, non per una sua forza titanica, bensì per l’apertura a un Infinito buono. Unica condizione perché nella Corea del Sud apparentemente libera di oggi, del cui destino sappiamo ben poco, non riaccadano i traumi che hanno segnato il secolo scorso e che vorremmo superare in un cammino comune di pace vera. Riecheggiano le parole di Papa Francesco ai giovani coreani, quando ha comunicato loro che la prossima Giornata mondiale della gioventù si sarebbe svolta a Seul nel 2027: “Abbiate coraggio! Portando la Croce in Asia annuncerete a tutti l’amore di Cristo”.

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