Rodolfo Casadei non me ne vorrà se prendo il suo recente articolo apparso su Tempi, Religione e politica non saranno mai separate, come esempio del modello teologico-politico che caratterizza in questo momento la destra religiosa in Occidente e in America Latina. È lo stesso modello che soggiace alle critiche verso papa Francesco accusato di essere un papa “rosso”, modernista, relativista. Ciò che non può essere perdonato al pontefice, secondo i suoi critici, è l’abbandono del terreno del conflitto, della lotta per i principi non negoziabili, della necessaria alleanza con le forze conservatrici per arginare, con l’ausilio del potere, le tendenze dissolutrici del mondo contemporaneo. Il papa viene combattuto perché rifiuta di legittimare religiosamente la destra che si oppone al movimento della globalizzazione. Il problema infatti, come è evidente nell’articolo di Casadei, è quello della legittimazione religiosa delle forze secolari. Al movimento di neutralizzazione dei simboli religiosi, proprio della globalizzazione, la destra religiosa oppone una teologia politica, una reazione identitaria e particolarista che individua nel potere la via di salvezza rispetto al nichilismo contemporaneo. Donde la tesi espressa con chiarezza da Casadei per il quale “religione e politica non potranno mai essere interamente separate”. E questo per due motivi.



“Il primo è che la religione ha da sempre svolto anche la funzione sociale di tenere insieme una comunità umana: religione viene dal latino ‘res ligare’, cioè legare insieme le cose, e la cosa pubblica, la repubblica, è la prima delle cose che hanno bisogno di coesione. I re dei sumeri, la più antica civiltà che si ricordi, erano allo stesso tempo sacerdoti, e fra le cariche di cui fu insignito Caio Giulio Cesare c’era anche quella di Pontifex maximus, la più alta autorità religiosa romana. Che abbia davvero visto nel cielo notturno una croce luminosa con la scritta ‘in hoc signo vinces’ oppure no, Costantino sapeva perfettamente che il potere politico ha bisogno di una sanzione sacrale per funzionare, e che la legittimità che viene dalla forza delle armi o da qualche altro principio secolare non è sufficiente”.



La politica ha bisogno di una legittimazione religiosa e, per converso, la religione ha bisogno di una incarnazione politica. Ogni altra prospettiva viene liquidata come angelismo, spiritualismo, disincarnazione, mancanza di realismo. In realtà, potremmo osservare, un’altra politica modulata dalla fede esiste, solo che non obbedisce al modello teologico-politico teorizzato da Carl Schmitt e  accolto acriticamente da Casadei. V’è infatti, nella storia del pensiero cristiano, una teologia politica e una teologia della politica. Il passaggio dalla seconda alla prima prospettiva è impercettibile e, tuttavia, sostanziale. Come osserva Joseph Ratzinger in Chiesa, ecumenismo e politica (Cinisello Balsamo 1987): “Il cristianesimo, in contrasto con le sue deformazioni, non ha fissato il messianismo nel politico. Si è sempre invece impegnato, fin dall’inizio, a lasciare il politico nella sfera della razionalità e dell’etica. Ha insegnato l’accettazione dell’imperfetto e l’ha resa possibile. In altri termini il nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica” (p. 201).



Prendendo sul serio questa asserzione scrivevo, nel mio volume Critica della teologia politica (Milano 2013):

“Nella sua concezione propria la fede cristiana è essenzialmente metapolitica; è politica nelle sue conseguenze. È politica in quanto la civitas Dei, secondo l’immagine suggerita dalla Lettera a Diogneto, è anima della polis, vive in essa pur senza identificarvisi, si prende cura del suo bene, non realizza se stessa, però, attraverso la politica. La sua è una teologia della politica, non una teologia politica. Ciò significa che non raggiunge il politico direttamente ma attraverso la mediazione etico-giuridica. Non realizza l’identità con il politico. Lo impedisce la riserva escatologica, lo scarto tra grazia e natura. La teologia politica, al contrario, è ‘dialettica’. Per essa il momento teologico si realizza attraverso il politico e il politico tramite il teologico. Nel passare ‘attraverso’, nel realizzarsi attraverso altro-da-sé, i due momenti vanno incontro ad una metamorfosi. È in questo senso che la teologia politica rappresenta una formula della secolarizzazione: del teologico, che identifica la civitas Dei con la civitas mundi; del politico allorché, nel senso di Löwith o di Voegelin, diviene religione politica” (pp. 12-13).

Questa distinzione fra “teologia politica” e “teologia della politica” è ciò che difetta al pensiero cristiano contemporaneo, a quello della destra religiosa in particolare. Da qui una serie di omissioni e di errori presenti anche nell’articolo di Casadei.

Il primo è dato dalla mancata distinzione dei Regni, di Dio e di Cesare, che pure è al centro del drammatico confronto tra Cristo e Pilato. Casadei scrive, giustamente, che per il periodo antico (e non solo) religione e politica sono unite ed indissolubili. Questo è vero: la religione antica è essenzialmente religione “pubblica”, teologia politica, cioè teologia della polis. Atene è la dea Atena, Roma si identifica con la dea Roma a cui Adriano dedicherà il più grande tempio della capitale. Templi e sacrifici sono in funzione della prosperità e della potenza della città e dell’impero. Religione e politica sono due momenti di un’unica totalità. Questa unità viene infranta dal cristianesimo per il quale, come dirà Agostino, le città diventano due, la Città di Dio e la città del mondo. Una duplicazione rivoluzionaria che spezza il modello teologico-politico imperiale e spiega le accuse di ateismo ai cristiani. Di questa “rivoluzione” nell’articolo di Casadei non vi è cenno. Si cita, al contrario, il modello di Cesare, il dominus di Roma che accorpa nella sua persona anche la carica di Pontifex maximus e ci si dimentica di ricordare che fu proprio un imperatore cristiano, Graziano, che deporrà nel 376 d.C. tale carica che da allora passa, come denominazione, al vescovo di Roma. Proseguendo la sua riflessione Casadei passa poi a valutazioni nettamente positive sulla Polonia e sull’Ungheria attuali, nazioni in cui si afferma “la coincidenza fra identità nazionale, indipendenza politica e tradizione religiosa cristiana”. Questa coincidenza rappresenta il paradigma da opporre al mondo globalizzato. Le critiche ad esso, secondo l’autore, sarebbero ideologiche e mancherebbero di realismo. Lo dimostrerebbe la storia del cristianesimo sotto l’impero romano.

“Se non avesse incontrato sulla sua strada un Costantino che ha gettato le basi perché diventasse religione di Stato (sotto Teodosio), il cristianesimo sarebbe rimasto un culto minoritario e i cristiani una comunità residuale alla stregua degli zoroastriani, degli yazidi, dei drusi, dei mandei, ecc. Il suo posto nella storia lo avrebbe preso il culto di Mitra, molto diffuso fra i legionari romani, e noi non avremmo avuto non solo gli splendori della civiltà cristiana insieme alle ambiguità dell’alleanza fra trono e altare, ma nemmeno i santi cristiani. Non solo non avremmo avuto Michelangelo, ma nemmeno san Francesco; non solo nessun Dante Alighieri, ma nemmeno un Benedetto da Norcia, una Teresa d’Avila, un Giovanni Bosco, ecc. Piuttosto che teorizzare un cristianesimo spirituale e universalista che ha orrore di ogni eventuale recupero politico, e condannare alla ‘damnatio memoriae’ quindici secoli di storia europea, sarebbe meglio ragionare in termini di saggezza della Provvidenza: il cristianesimo religione civile degli Stati europei è stato l’alveo necessario dentro a cui il cristianesimo genuino dei santi (mistici,  sociali, martiri, ecc.) e più in generale l’esperienza autentica offerta a ogni credente della vicinanza misericordiosa di Dio all’uomo in Cristo, si è potuto realizzare. È stato lo strumento storico che ha creato le condizioni sociali, politiche e culturali per il perseguimento della santità possibile per i piccoli come per i grandi”.

Ho riportato il lungo brano perché esso documenta come per una parte dell’intellighenzia cattolica il Concilio Vaticano II sia passato invano. Il ritorno del modello patristico dei primi secoli, di contro a quello medievale privilegiato dalla neoscolastica del ‘900, aveva infatti permesso al Concilio di valorizzare la distinzione tra Chiesa e Stato e i principi delle libertà moderne, di quella religiosa in primis. Questo non significa un’accettazione acritica della storia e, tuttavia, come scrive Joseph Ratzinger:

“Ciò non deve assolutamente portare ad una negazione dell’età moderna, tentazione che si poteva cogliere, sia nel romanticismo dell’Ottocento nostalgico del Medioevo, sia in ambienti cattolici tra le due guerre mondiali. Quale caratteristica positiva dell’età moderna annovero il fatto che in essa viene coerentemente realizzata la separazione di fede e di legge, che era piuttosto nascosta nella res publica christiana medioevale. In tal modo prende a poco a poco forma e struttura chiara la libertà della fede nella sua distinzione dall’ordine giuridico borghese, e le intime pretese della fede vengono distinte dalle esigenze fondamentali dell’ethos, su cui si fonda il diritto. I valori umani, fondamentali per la visione cristiana del mondo, rendono possibile, in un fecondo dualismo di Stato e Chiesa, la libera società umana, in cui vengono garantiti il diritto alla coscienza e con esso i diritti umani fondamentali” (op. cit., pp. 216-217).

Di questo lavoro di assimilazione critica della modernità non v’è traccia nell’articolo di Casadei. La sua tesi ricorda, nella sua radicalità, la versione laico-ottocentesca sulla diffusione del cristianesimo nel mondo antico. Si tratta di quel filone di pensiero per cui la fede avrebbe trionfato non grazie a Cristo, idealista ed utopista, ma grazie a San Paolo dal quale deriverebbe la Chiesa ben radicata nella realtà del mondo. Ne troviamo eco nella “Leggenda del grande Inquisitore” di Dostoevskij. Questa tesi, palesemente eterodossa, è più o meno consapevolmente sostenuta da Casadei laddove ritiene che il cristianesimo non si sarebbe mai diffuso – “sarebbe rimasto un culto minoritario e i cristiani una comunità residuale alla stregua degli zoroastriani, degli yazidi, dei drusi, dei mande” – se non fosse stato sostenuto dai poteri del mondo. Non ci sarebbero stati i santi, “nemmeno san Francesco”, se non ci fosse stato il Sacro Romano Impero. Questa tesi è errata sotto un duplice profilo, teologico e storico.

Sul piano teologico perché contrasta con il principio per cui  la grazia soprannaturale non necessita di nulla per accadere. Richiede solo il consenso del cuore umano. In qualsiasi luogo e sotto le condizioni più avverse Dio può incontrare l’uomo.

E questo ci porta al secondo errore. Sul piano storico la diffusione del cristianesimo nell’impero romano, fino all’Editto di Milano del 313 d.C. che garantisce la libertà religiosa per tutti, non è dipesa dal potere ma dalla libera testimonianza spinta fino al sacrificio. Il connubio “provvidenziale”, che Casadei stabilisce tra cristianesimo e impero romano obbedisce, in realtà, ad un preciso modello teologico-politico: quello del vescovo Eusebio di Cesarea il quale, dopo Costantino, saluta l’unità di Roma come precondizione dell’universalismo cristiano. È il modello criticato da Erik Peterson nel suo Il monoteismo come problema politico, del 1935, volto contro Carl Schmitt e i “cristiani tedeschi” filo-nazisti. Con Eusebio di Cesarea siamo di fronte, secondo Ratzinger, ad

“una linea secondo la quale l’unificazione escatologica dei linguaggi è stata creata nell’unità della lingua imperiale della nuova Roma, quindi sulla via verso la teocrazia politica. Ciò caratterizza la teologia di questa cerchia in genere, che equivoca l’universalismo cristiano con quello romano, abbassa quindi il primo al livello politico e così gli toglie la sua vera e propria grandezza. La breccia attraverso il nazionalismo è ormai solo apparente: è fissata di nuovo a un’entità politica. All’opposto presso Agostino l’elemento di novità cristiana è mantenuto: la sua dottrina delle due civitates non mira né ad una “ecclesializzazione” (Verkirchclichung) dello Stato né a una “statalizzazione (Verstaatlichung) della Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine” (L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, Brescia 2009, pp. 110-111).

Con Eusebio “la breccia attraverso il nazionalismo è ormai solo apparente: è fissata di nuovo a un’entità politica”. Questo è esattamente quanto accade con il paradigma teologico-politico di Casadei il quale, nella sua polemica con l’universalismo cosmpopolita ed illuminista, torna ad un particolarismo territoriale neopagano nelle sue motivazioni religiose. Qui starebbe, infatti, la seconda ragione della connessione essenziale tra religione e politica.

“Il secondo motivo del legame irriducibile fra religione e politica è che la politica si fonda sul governo di entità che sono necessariamente territoriali, i territori hanno confini e i confini, per essere preservati, hanno bisogno di essere sacralizzati. L’esempio ungherese dimostra che non serve un politico cristiano conservatore alla Viktor Orbán per afferrare il concetto, ci arrivavano benissimo i dignitari comunisti del genere di Janos Kadar. Che un esponente sovranista come Matteo Salvini avrebbe a un dato momento fatto ricorso alle simbologie religiose per caratterizzare la sua posizione, era del tutto prevedibile. I sovranisti rivendicano la sovranità nazionale contro le dinamiche della globalizzazione e contro la devoluzione dei poteri nazionali all’Unione Europea: è assolutamente ovvio che debbano sacralizzare i confini degli Stati la cui sovranità intendono riaffermare, ed è inevitabile che per fare questo ricorrano al religioso”.

Le conclusioni di Casadei indicano la forza di un modello ideologico: di per sé non è né “ovvio”, né “inevitabile” che si pervenga alla sacralizzazione dei confini. È singolare che l’autore, così critico verso la secolarizzazione illuminista, non si avveda della secolarizzazione romantica, quella che procede verso il sangue e il suolo, verso una Heimat vista come terra madre, comunità mistica. È ragionevole avere motivazioni religiose a sostegno delle decisioni etiche e politiche. Ciò che non è ragionevole è utilizzarle come metallo fuso per la sacralizzazione del mondo. Ogni struttura è ambigua, può aprire e può chiudere. Questo vale per l’Europa, i cui esiti burocratici non possono far disconoscere, però, la sua fondamentale funzione di pace tra popoli che si sono massacrati in due guerre mondiali, e vale per gli Stati nazionali che, fuori da ogni nazionalismo e settarismo, mantengono la loro utilità anche in un quadro europeo.

Casadei, studioso di scenari storici, dovrebbe essere attento alle ricadute ideologiche della sua posizione. Un certo mondo intellettuale cattolico si è formato negli anni 70-80 del secolo scorso avendo come avversario principale il marxismo allora egemone. Nel frattempo la storia è profondamente mutata e dopo la crisi provocata dal modello tecnocratico-relativista dell’era della globalizzazione il ritorno alla politica ha assunto, nei critici, un tono reattivo, di contestazione difensiva, un bisogno di “radici” e di identità perdute. Si tratta di una reazione, subalterna al proprio avversario, che usa della religione per legittimarsi. Dopo l’11 settembre 2001 il mondo vede la radicalizzazione di posizioni religiose esposte al vento del Dio degli eserciti: la verità della fede si decide in battaglia. Non è questa la via cristiana. Dovrebbe essere evidente ma, come dimostrano le reiterate critiche al papa, non lo è. Un’ideologia cupa, radicata nella dialettica amico-nemico, attraversa la scena di un mondo in crisi. Come negli anni 70, dominati dal marxismo, anche oggi i credenti non sono insensibili al fascino delle nuove correnti che irrompono nella storia.