La lettura del saggio che Domenico Bilotti dedica a La virtù della disciplina (Bonanno, 2022) nel diritto e nella dottrina canonistica rappresenta per il lettore una sfida di cui forse si è persa l’abitudine. Questo giovane studioso non solo percorre attraverso l’esame di tre personalità la storia della dottrina canonistica, ma cerca anche di introdurci a cogliere il nesso delle loro opzioni dottrinali con la cultura teologica e giuridica del loro tempo.
Il denso volume che ne è uscito (certo non di facile lettura), rappresenta per chi lo accosta una suggestione che gli permette di immettersi, se così si può definirla, nell’avventura intellettuale dell’autore e di apprezzarne la cultura e, direi, anche la partecipazione umana alle conclusioni che, via via, ci propone. Queste righe non pretendono di essere una lettura scientifica dello scritto, vogliono invece rappresentare la reazione immediata e sincera ad una lettura piena di simpatia e (perché no) di ammirazione.
Il senso complessivo del viaggio nel quale siamo condotti si snoda attraverso le figure di tre teologi/giuristi, Pier Damiani (XI secolo), Enrico da Susa-l’Ostiense (XII secolo) e Francisco Suarez (XVI-XVII secolo) e ci conduce, per riprendere le conclusioni dell’autore, a vedere come in essi (che non mostrano una generica acquiescenza al comando della gerarchia, malgrado siano stati intransigentemente osservanti fino alla rinuncia di eventuali loro proposizioni di umano e giustificabile dissenso) sia evidente che proprio “la disciplina, la scelta comportamentale di adesione preliminare a ogni condotta” che avvicina “l’uomo alla propria veritas fidei” sia diventata ciò che “sospinge a rimodulare pazientemente nelle maglie interne del sistema in cui agisce, i propri erronei comandi, destituendoli da ogni opportunistica fondazione metafisica”.
Una tale affermazione rappresenta una conclusione di assoluto rilievo per una società, come quella contemporanea, dove la pluralità delle posizioni, assunte come veritative, porta a rendere impossibile ogni dialogo, al punto che la convivenza sembrerebbe essere condizionata alla rinuncia da parte di tutti a perseguire la veritas fidei. Ma le suggestioni offerte da questo scritto sono anche altre.
Innanzitutto, va apprezzata la linea di ricostruzione del pensiero delle tre personalità che ne mostra le linee di continuità e le fratture, pur essendo esse vissute in tempi segnati da fenomeni culturali e sociali diversi, in un clima ecclesiale caratterizzato da vicende tra loro molto distanti, quali la crisi del papato nei decenni che accompagnano la crisi e la fine del feudalesimo, dall’insorgere della stagione dell’economia mercantile sino al primo consolidarsi degli Stati nazionali dell’età moderna e alla crisi pre e post-tridentina dell’istituzione ecclesiastica.
E appare apprezzabile che l’autore abbia colto la continuità con la quale queste tre personalità guardano al tessuto ecclesiale e al papato per mostrare come non si siano sottratti al tentativo, anche talora non riuscito, di accogliere nel pensiero teologico-giuridico la continua evoluzione di una società civile che inizia e sviluppa il suo processo di separazione dall’unitarietà, per dirla con Giorgio Falco, della Santa Romana Repubblica, e soprattutto a rompere l’unitarietà sostanziale e formale con cui pensa alla giurisdizione segnata dalla prevalenza dell’autorità della Chiesa.
Non è possibile in queste poche righe dar conto dell’ampiezza di riferimenti teologici, giuridico-canonistici e latamente culturali che l’autore maneggia – e di questo gli va dato atto – senza inutili pedanterie.
Bilotti individua nelle tre personalità, di cui ripercorre il pensiero, uno sforzo progressivo di aprire il diritto canonico al contributo del diritto civile, che, meno evidente in Damiani, diventa nell’Ostiense, per il sopravvenire di un’economia come quella mercantile, anche tentativo di ripensamento unitario della dottrina canonistica e delle sue implicazioni con la nuova dottrina civilistica.
Particolarmente felice è l’individuazione di tre fattispecie delittuose, la simonia per Pier Damiani, l’usura per l’Ostiense, la resistenza al comando ingiusto per Suarez, che si qualificano come i paradigmi del tentativo messo in atto dai tre autori di operare una sintesi tra l’origine sacrale (per non dire divina) del diritto canonico e la nascente scienza giuridica civile.
In tutti questi casi entra in gioco un comando che trova la sua origine nella Sacra Scrittura, che deve trovare nel diritto canonico una risposta coerente con tale prescrizione e atta a dar conto del mistero di salvezza nel quale si colloca. Così per Pier Damiani, la condotta gravemente delittuosa del dignitario ecclesiastico simoniaco, fosse pure direttamente il titolare dell’ufficio pontificio, “non sarebbe mai idonea a inficiare la natura salvifica dei sacramenti”.
Nel caso dell’usura, la risposta del diritto deve essere collegata anche al sorgere di una problematica di carattere economico e, quindi, ad una serie di questioni tipicamente civilistiche, ma, in definitiva, il punto centrale è la risposta da dare ad “una questione di gran lunga preliminare: l’operatività (della ratio) del comandamento divino [che vieta il prestito] all’interno dei rapporti di scambio”. La liceità dell’usura, sulla cui riprovazione esisteva una larga convergenza di fonti imperiali e canoniche e che l’Ostiense definisce come “qualsiasi valore aggiunto a quello prestato a ragione della remunerazione del previo prestito”, è giustificata, nella ricostruzione del pensiero che ne fa Bilotti, qualora la transazione economica appaia riconducibile ad una canonicamente fondata economia della salvezza. E proprio questa soluzione, che non è solo rivendicazione di un potere, ma anche definizione dei limiti, offre la regola cui deve ispirarsi l’autorità ecclesiastica. Nel difficile passaggio da un’economia prevalentemente fondata sulla concentrazione immobiliare a quella caratterizzata da un sempre maggiore scambio di valori mobiliari, di questo il giurista canonico e il teologo devono tener conto se non vogliono “venir meno ai contenuti e agli obblighi del diritto divino”.
Il mondo nel quale opera Suarez è ormai quasi del tutto estraneo a quelli che possiamo definire connotati di valore del medioevo, in particolare, appare ormai comunemente accettata l’idea che la Chiesa e lo Stato “si pongono ab origine come dotate di un proprio ordine (societates perfectae) anche perché ad esse rispondono due giurisdizioni diverse”. E questo spiega il rilievo assunto dall’interrogativo cui il gesuita spagnolo cerca di rispondere: Esistono delle condizioni generali di inammissibilità per il comando del potere profano?
Per Suarez non fa differenza che si tratti dell’obbligo del giuramento richiesto da Giacomo I ai suoi sudditi cattolici o della cancellazione dell’esenzione dei chierici dalle leggi civili, piuttosto che del divieto della proprietà ecclesiastica, deliberati dalla Serenissima all’inizio del XVII secolo. Partendo dall’autonomia degli ordini, che non significa la negazione di una potestas indirecta della Chiesa alla luce della sua superiorità morale, Suarez propone così, qualora il principe proponga leggi che siano dannose per la salus animarum “non una clausola permanente di disobbedienza che possa essere implementata con qualunque contenuto discrezionale”, ma “orienta la disobbedienza al comando ingiusto entro un preciso confine pratico, la giurisdizione civile”. Si tratta, secondo Bilotti, di “una argomentazione teologica a favore di una politica del diritto (una tassonomia dei suoi limiti civili e religiosi)” che consente a Suarez di “prospettare un diritto della politica (una possibilità di disciplina secolare non violativa dei precetti religiosi)”.
In conclusione, dentro il percorso che si propone al lettore si evidenzia maggiormente il valore dell’assunto presentato all’inizio, quello cioè di una disciplina volontaria (l’adesione alla veritas fidei), che precede e da senso alla sequela della disposizione normativa.
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