Bisogna essersi trovati col cuore a pezzi per capire di che si tratta. Delusione di sé o dell’altro, peccato pieno di stupore per il proprio nulla, crollo del mondo interiore, lacerazione di rapporti significativi, separazione dalla propria casa psichica pensata come acquisita per sempre. Nomi diversi di una sofferenza che può colpirci o ci ha colpiti con un diverso grado d’intensità. Naufragio in cui abbiamo perso la barca su cui ci sentivamo sicuri del nostro posto al sole: senza rischi e senza troppa fatica.
Ci siamo sentiti come smarriti e soli nel bosco di Tradate, come un genio religioso di nome don Luigi Giussani. Proprio in quel momento, quello del grido, si è resa inaspettatamente presente una mano, quella dell’amico. Non uno sguardo d’intesa complice o una cordiale benevolenza o un’attenzione partecipe, ma una misura in grado di attraversare la grigia e dolorosa nebbia nell’anima. Un altro mondo nel nostro essere, finalmente, fatto di delicatezza, di cura, di respiro nel nostro affanno nel vivere, ormai prossimo al collasso.
Eugenio Borgna nel suo testo Sull’amicizia (Cortina, 2022) ci fa rivivere l’esperienza di una carezza che, entrando nella nostra vita, ci ha dato la memoria di un futuro diverso, tessuto da una speranza che viene prima del patire. “La luce eterea della tenerezza, della carezza che è in lei, attraversa ogni amicizia, mettendoci in relazione con l’altro da noi, con la sua interiorità e con la sua soggettività; e l’una e l’altra, la tenerezza e la carezza, hanno in comune la spontaneità e la grazia, il rispetto della libertà e della dignità della persona” (p. 64).
Tale carezza descritta da Rainer Maria Rilke in Folli nel giardino. Digione (Nuove Poesie), non arretra neanche di fronte al dolore della follia, sa entrare come un raggio di luce nel buio. Si presenta come cauta e timorosa “perché è gentile l’erba e forse il rosso delle rose parrebbe minaccia e dismisura”. La mano di chi cura e ha cura fa sentire una vicinanza emozionale, il tocco di un infinito in atto. Un di più imprendibile ci fa sentire la sua compagnia tramite un volto.
Le parole di un altro risuonano così nella nostra vita, sommessamente, con una bellezza discreta. L’amicizia insomma per Borgna inaugura e mette in atto una comunione di destino. “Nella metafora della comunione di destino vorrei indicare ancora una volta la radicale importanza che nella vita assumono le emozioni, e che oggi sono sacrificate sull’altare della ragione trionfante. L’amicizia crea fragili comunità di cura e di destino, che consentono di dare un senso alla vita, anche nelle ore dell’angoscia e dell’agonia della speranza. Sono comunità immerse nella luce dell’interiorità, visibili agli occhi e agli sguardi di chi, almeno per un attimo, abbia conosciuto le ferite dell’anima, e ne abbia ascoltato il grido silenzioso” (p. 99).
Le parole dell’amico sono creature viventi, in grado di far vedere un mondo. E il suo sorriso è in grado di entrare nel dolore impenetrabile e attraversarlo. Il mistero degli “occhi ridenti e fuggitivi” di Silvia nell’interpretazione leopardiana di Francesco Flora è perciò la viva testimonianza di uno splendore non proprio che apre all’alterità. “Il sorridere riapre il cuore a un’amicizia che magari stava inaridendosi, e che si riaccende nelle sue radici, e nel suo avvenire” (p. 62). Il sorriso imprevisto rivolto proprio a noi, parla e nel silenzio ci fa dire: “dici a me, proprio a me?”. Un “a me” non pieno di rabbia come in Taxi Driver, ma carico di sorpresa. Tale sorriso dell’essere, inatteso, non cicatrizza il cuore che sanguina, ma nel suo provenire da un altrove ci fa desiderare nuovamente. In un momento fuggitivo, ma intensamente certo, cogliamo che tutti, proprio tutti abbiamo proprio bisogno di un amico grande, grande.
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