Ricordo un reading letterario a Milano, in via Spartaco, zona Piazza Cinque Giornate, in un torrido fine giugno 2012, l’Italia in piena recessione e il tentativo audace e spregiudicato di radunare intorno alla poesia alcuni amici e poeti per recuperare uno spazio più familiare e umano davanti alle ombre minacciose della crisi e ai calcoli della finanza.



Rivedo Franco Loi, special guest di quella lettura, sbucare a tarda serata dalle porte del locale come un angel venuto dall’aldilà o dalla notte incandescente di Milano, leggere De Diu sun matt in un silenzio estatico, carico di attesa e stupore. Fuori la città vorticosa e le luci e gli alberi della circonvallazione, schierati nell’aria calda e immobile. Di visi e visioni – questo il titolo del reading – per tentare di segnare una rotta controvento, uno spalancamento necessario dell’orizzonte. Nello sguardo attento di Loi, immerso nell’ascolto delle nostre voci, era racchiusa tutta la magia di quell’incontro, lo spazio sacro e autentico che forse cercavamo anche dentro alla poesia, inconsapevolmente.



Sono trascorsi ormai dieci anni da quell’evento e la fragile complessità del mondo contemporaneo si mostra ancora in tutte le sue crisi: dall’instabilità politica all’esplodere del conflitto ai confini orientali dell’Europa, fino a una mancanza di fiducia nel presente che investe – dopo due anni di chiusure e ferite profonde – tutti gli strati sociali, specialmente i più giovani. Accanto a queste e altre sfide che interessano i nostri giorni assistiamo a un progresso tecnologico che, con velocità esponenziale, continua a mutare abitudini e relazioni, incidendo sul tessuto sociale e culturale del nostro presente.



Riflettendo su questi e altri nodi della contemporaneità, mi sono imbattuto recentemente nel pensiero del filosofo Byung-Chul Han. La lettura del suo Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale è stata una boccata d’ossigeno nel mare magnum di opinioni, informazioni e dati che circondano e assediano ogni frangente della nostra esistenza.

Non si tratta appena di demonizzare il mondo digitale, con le sue incredibili potenzialità offerte all’uomo contemporaneo e alle future generazioni. Ma credo sia interessante, in un universo culturale spesso appiattito su posizioni uniformi e trasportate dalla corrente, non perdere la capacità di esercitare un pensiero critico: “Il capitalismo delle informazioni rappresenta una forma acuita di capitalismo. Al contrario del capitalismo industriale, esso trasforma in merce l’immateriale. Anche la vita assume i contorni di una merce. Tutte le relazioni umane vengono commercializzate […] Il capitalismo delle informazioni conquista ogni angolo della nostra vita, della nostra anima. Le inclinazioni umane vengono sostituite da giudizi e like. Sono soprattutto gli amici a essere contati, e la cultura stessa diventa merce dall’inizio alla fine. Anche la storia di un luogo viene tolta di mezzo mediante lo storytelling, che la rende fonte di un valore aggiunto. I prodotti vengono arricchiti di microstorie. La differenza tra cultura e commercio va scomparendo”.

È ancora possibile, in un mondo così vertiginosamente seppellito da big data e lanciato verso il metaverso, uno spazio autentico? In un mondo di stories che si affollano su miriadi di schermi, che cosa vale ed è essenziale per la storia di ogni singolo? La crisi individuata da Han viene a minare le fondamenta stesse della comunità umana, la sua cultura: “La cultura ha la propria origine nella comunità. Più la cultura diventa merce, più si allontana dalla propria origine. La commercializzazione e mercificazione totale della cultura provoca la distruzione della comunità. La ‘community’ spesso evocata dalle piattaforme digitali è una forma merceologica di comunità. Una volta divenuta merce, la comunità cessa di esistere”.

Ecco che, nella vastità e complessità dei linguaggi contemporanei, il lavoro dei poeti sulla parola – quel lampo che come dice Florenskij in Il valore magico della parola “straccia il cielo da est a ovest e rivela il senso incarnato” – torna quanto mai attuale. In un’epoca satura di informazioni e di parole desemantizzate la poesia, con la sua unione imprevedibile di suoni e significati, può forse aiutarci a spalancare lo sguardo. A rimettere in circolo le energie, a ritrovare una possibilità di relazioni (una comunità?) dietro a strati e strati di indifferenza.

Ecco allora che, con gli amici di LineaTempo, abbiamo intrapreso questo piccolo viaggio nella poesia contemporanea, senza nessuna pretesa di fornire mappe o tendenze ma con la curiosità del navigante, offrendo al lettore un magma incandescente di provocazioni, spunti, domande. Camminando, insieme a Loi, più con il fascino della scoperta che con l’orgoglio della conquista, come leggiamo nella nota introduttiva a Liber: “Una delle cose che mi riesce più difficilmente comprensibile è il ‘narcisismo dei poeti’. Se c’è qualcosa che, per mia esperienza, non appartiene al poeta è la sua poesia, dico nel senso di possesso egoistico, di espressione voluta e controllata dall’Io. Non vedo perciò come un autentico poeta possa inorgoglirsi o compiacersi dello scrivere poesia. A parte il pericolo vitale e spirituale insito nell’accettazione del ruolo, l’alienazione disumana che si nasconde dietro la poesia”.

È scaturito così il dossier di LineaTempo 31, significativamente intitolato “L’ampiezza del cielo” (Franco Loi). Uno sguardo sulla poesia contemporanea. Abbiamo provato ad ascoltare voci, tra loro molto diverse, che si sono confrontate con l’esperienza della scrittura o hanno incontrato la poesia attraverso il mondo dell’insegnamento scolastico e nel rapporto con le giovanissime generazioni.

Con la speranza di innescare una piccola, silenziosa rivoluzione quotidiana auguriamo ai lettori buon viaggio per ritrovare quell’ampiezza del cielo di cui ci parla la grande poesia.

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