Paul Ludwig Landsberg colloca la sua riflessione sulla persona nel mistero del rapporto tra l’eternità di Dio e il tempo dell’uomo. Secondo Landsberg la persona non è un “essere per la morte” (Heidegger), ma è orientata e ordinata alla “realizzazione di se stessa e all’eternità” (L’esperienza della morte, 1937). La persona, cosciente della propria unicità, trova presente nel suo stesso essere la disposizione del “dire di sì” all’unicità che deve realizzare. In tale risposta affermativa e realizzazione è compreso l’anelito del trascendimento dei limiti del tempo. Per questo, credere che la morte corporale sia l’annientamento definitivo non è altro che un riverbero di una disperata “negazione della persona attraverso se stessa” (ivi). Al riguardo, Landsberg distingue la speranza dalle multiformi speranze e, correlativamente, distingue il “futuro della speranza” dal “futuro delle speranze”. Il primo è “il futuro della mia propria persona, nel quale io devo compiermi” e al quale sono orientato con intima fiducia e pazienza mediante la virtù della speranza; il secondo invece è “il futuro del mondo” che con impazienza dubbiosa si cerca senza sosta di anticipare. “Le speranze – prosegue Landsberg – pongono una temporalità che appartiene al mondo e al caso. La speranza pone un’altra temporalità che appartiene alla persona stessa e alla sua libertà” (ivi). La speranza è dunque la nota di fondo e il discreto tessuto connettivo del tempo dell’uomo, che lo distingue dal tempo di tutti gli altri esseri viventi, rispetto ai quali noi uomini “siamo i soli a essere situati nel tempo in una maniera che trascende il fatto di dipendere dalla successione degli istanti” (Riflessioni sull’impegno personale, Esprit 1937).
Il tratto distintivo della persona, secondo Landsberg, è la sua “esperienza interiore”, il suo interiore “essere chiamato-a-divenire”, contraddistinto da una “unità assoluta” che non può essere compresa come scomponibile e suddivisibile in punti dello spazio o in momenti del tempo fisico (Introduzione all’antropologia filosofica, 1934). È nella realtà della propria interiorità che la persona fa esperienza in modo particolarmente vivo dell’“irruzione dell’Eterno nel temporale”, come testimoniano le vite di santi quali Agostino, “il genio divenuto santo”, e Teresa d’Avila, “la santa divenuta geniale” (Qualche riflessione sull’idea cristiana di persona, Esprit, 1934).
La meditazione di Landsberg sul rapporto tra l’eternità di Dio e la temporalità dell’uomo si svolge tutta nella luce di Cristo, nella misura in cui egli riconosce che Cristo dona a chi crede e aderisce a Lui “una nuova liberazione dalla morte” e, ponendo fine alle anticipazioni del platonismo, “rivela un Regno dello Spirito che è inaccessibile alla morte e al quale l’uomo può partecipare”. L’amore di Dio trasfigura ed abbraccia la morte, permettendo all’uomo di amarla non per amore della morte stessa, ma in quanto passaggio che conduce all’incontro e alla comunione perdurante con l’eterno Amato, “che è presente e che elargisce l’essere”. Nel “movimento intero verso l’essere”, accompagnato dall’esperienza vissuta di una “gioia spirituale” di dolcezza ineffabile, “l’uomo in quanto persona spirituale sente come divenga per grazia ciò che egli è in Dio” (L’esperienza della morte, cit.).
Pasqua, pascha, “passaggio”: dall’istante in cui Gesù Cristo ha attraversato la morte per risorgere il terzo giorno, la morte non è l’ultima parola che azzittisce per sempre la vita, ma la morte entra nella definizione della vita stessa. E dall’istante dell’Incarnazione del Figlio, ogni istante del tempo dell’uomo non è più qualcosa di inconsistente, insensato, insignificante. Da parte sua, Walter Benjamin scrisse che per gli ebrei, quanto al futuro, “ogni secondo [è] la piccola porta attraverso cui il Messia [può] entrare” (Sul concetto di storia, Appendice B, 1940).
Una poesia composta tra il 1940 e il 1942, nella quale Landsberg si rivolge a Cristo, rivela l’intensità della mendicanza e l’umile adesione senza condizioni di questo uomo all’Uomo-Dio: “La Tua Bellezza affilata come una spada / mi ha tagliato in due a tal punto che ora solo con Te, / duplice essere, io posso essere ancora tutto intero. […] Il presente per me si è fatto desolato, / e lontano dalla speranza il futuro è miseria. / Ma il Tuo amore, che su di me regna, / domina la vita e domina la morte. // Non voglio più comparire di nuovo incredulo al Tuo cospetto / e solo una cosa posso per me implorare. / Non posso mentire, dunque pregherò: / Signore, fa’ trascorrere la notte del mondo che ci avvolge”.
Il metodo sotteso al pensiero di Landsberg non consiste in un mero ritorno al Medioevo, dal momento che egli è persuaso che tale ritorno nostalgico, così come la neomistica e la neoscolastica del suo tempo, non sia affatto in grado di aiutare l’uomo contemporaneo. L’aiuto autentico – così scrive – può giungere solo dalla “riscoperta dell’Eterno nel mondo, anche nel mondo della Storia, anche nel Medioevo. Solo l’Eterno può essere in modo decisivo un modello esemplare” (Il mondo del Medioevo e noi. Un saggio di filosofia della storia sul senso di un’epoca, 1923; Morcelliana, Brescia 2023). Il suo metodo non è riconducibile nemmeno al programma fenomenologico del “ritorno alle cose stesse” (Husserl). Più semplicemente, la via percorsa da Landsberg nell’unità di vita e pensiero può essere descritta come un ritorno alla santità, innanzitutto attraverso la contemplazione dell’umanità santa di Gesù Cristo (santa Teresa d’Avila, Vida, XXII), quindi delle vite dei santi.
Abraham J. Heschel scrisse: “Non possiamo risolvere il problema del tempo attraverso la conquista dello spazio, attraverso le piramidi o la fama. Possiamo risolvere il problema del tempo solo attraverso la santificazione del tempo. Per gli uomini da soli il tempo è elusivo; per gli uomini con Dio il tempo è eternità in incognito. […] Questo è il compito dell’uomo: conquistare lo spazio e santificare il tempo. Dobbiamo conquistare lo spazio al fine di santificare il tempo. […] L’eternità pronuncia un giorno” (The Sabbath. Its Meaning for Modern Man, 1951).
Il giorno in cui Paul Ludwig Landsberg fu condotto nell’infermeria del Lager in uno stato di magrezza e di astenia estreme – nessuno dopo lo avrebbe più rivisto – i suoi ultimi compagni sopravvissuti testimoniarono che egli si volse verso di loro e, non riuscendo più a pronunciare parola, fece un segno di croce in silenzio benedicendo i presenti. Così questo uomo conquistò il Lager e santificò il tempo nel Nome del Crocifisso Risorto. “Quello che fai, fallo bene”, insegnava santa Chiara d’Assisi. Landsberg, nell’ora della sua morte, sa di avere docilmente obbedito e compiuto il servizio. Quello che ha fatto, ha fatto bene.
(2 – fine)
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