Sta finalmente per uscire la ristampa di un libro di Duccio Trombadori, pubblicato solo dodici anni fa ma da tempo introvabile: De Dominicis amico pittore. Storia e cronistoria di un sodalizio (Maretti Editore, novembre 2024, pp. 140). Trombadori è, come ripetono tutte le note biografiche, critico d’arte, poeta, scrittore e ultimamente anche pittore, oltre che figlio d’arte: nipote cioè di Francesco, protagonista del realismo magico, e figlio di Antonello, intellettuale e uomo politico. È però soprattutto uno spirito libero, nell’accezione squisitamente nietzscheana del termine: qualcuno che pensa diversamente da come la sua origine, il suo ambiente, la sua condizione sociale e le opinioni dominanti del suo tempo dovrebbero indurlo a pensare. E in questo senso è l’autore ideale per parlare di un artista che sfugge alle definizioni come Gino De Dominicis (Ancona 1947-Roma 1998).



Il libro, come dice il titolo, è qualcosa di diverso da una monografia o da un saggio critico. È la storia di un’amicizia, che però si intreccia strettamente con gli avvenimenti del mondo dell’arte e non solo di quelli. “Da marxista e storicista, quale io mi reputavo all’epoca, la relazione col pensiero visivo, magico e poetante di De Dominicis risvegliò in me l’eco di irrisolte domande sull’irragionevolezza dell’espressione e la sua tangenziale prossimità col ‘mistero dell’essere’”.



Quasi a sottolineare il proprio percorso autonomo, la biografia inizia dalla fine: dalla scomparsa inaspettata dell’artista, che muore a soli 51 anni, in circostanze mai chiarite, lasciando sgomenti tutti coloro che lo conoscevano. E che erano pochi (parliamo di conoscenza vera, non di quella notorietà superficiale che coincide col fraintendimento), anche perché De Dominicis, per un singolare vezzo, non permetteva la riproduzione delle sue opere. “Di amici ne aveva pochi, di ammiratori parecchi e sempre pronti a tirargli la giacca nella speranza di poterlo inserire entro schemi che gli andavano stretti” osserva ancora Trombadori.



De Dominicis è stato un artista tanto d’avanguardia da essere classico e tanto classico da essere d’avanguardia. È stato un protagonista dell’arte concettuale, anzi è diventato famoso per alcuni gesti, più scandalistici che realmente scandalosi, come il ragazzo affetto da sindrome di Down presentato alla Biennale di Venezia nel 1972. Ma il concettuale per lui non era un dogma, tanto che ironizzava: “È stata una tendenza americana che negli anni Settanta in Italia ha destato un certo interesse, soprattutto nel Meridione, forse perché lì sono molto diffusi i nomi Concetta, Concettina, Concezione”.

È stato anche uno dei pittori più aristocratici della sua generazione. “Il disegno, la pittura e la scultura non sono forme d’espressione tradizionali ma originarie, quindi anche del futuro” diceva. In realtà il cuore della sua opera, al di là delle diverse e anche antitetiche apparenze, è uno solo: la ricerca dell’immortalità. Le cose e l’uomo, sosteneva, dovrebbero essere eterni per esistere veramente. Per questo le sue installazioni e i suoi dipinti contengono anche una continua meditazione sulla morte, cioè sull’unico evento umano che annulla il tempo.

Nella splendida tavola Urvasi e Gilgamesh due figure dal profilo appena accennato guardano lontano, verso un paesaggio in cui appare una luce. Gilgamesh, l’eroe sumero re di Uruk, lottò per conquistare l’immortalità. Irvasi, la dea indiana, volle raggiungerla con la sua bellezza. Entrambi osservano la luce che si accende in lontananza, come un miraggio dell’eterno. Il desiderio di Gilgamesh è espresso da tutte, o quasi, le opere di De Dominicis. Forse anche la morte misteriosa che l’artista ha trovato è stata un capitolo di quella ricerca.

Il libro di Trombadori è la testimonianza, narrata dall’interno e con disincantata ironia, di un ventennio di storia e di retroscena del nostro sistema artistico dagli anni Ottanta a fine millennio, ma non dimentica la tensione filosofica e spirituale che anima il lavoro di De Dominicis e lo porta ad andare oltre la superficie delle cose. Non a caso si chiude davanti a un autoritratto dell’artista: “quell’ultimo muto ed immobile autoritratto che aveva dipinto in nero e oro quale traccia visibile di una invisibile presenza”.

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