È nato giusto un anno fa, come contrasto al clima di paura e incertezza causato dallo scoppio della pandemia, il progetto Parole Buone, un percorso di testi, immagini e video che ha preso vita da un’intuizione dello psicoterapeuta e scrittore Sergio Astori, docente della facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano. Un percorso, costellato di piccoli appigli narrativi, che continua, non più a cadenza settimanale, ma quindicinale, per sostenere, accompagnare e condividere la costruzione di “anticorpi” capaci di sottrarre alla comunicazione pervasiva sul virus e sulle sue conseguenze. Alla realizzazione e implementazione contribuisce il lavoro corale di un gruppo di esperti – medici ed educatori, giornalisti e volontari –, grazie anche all’importante sostegno della Fondazione Pio Istituto dei Sordi. Non a caso queste “pillole di resilienza per superare la crisi” sono diffuse in tanti formati – non solo sui canali social ma anche con la lingua italiana dei segni – e sono state in parte raccolte (le prime 12, ora siamo a quota 30) nel libro Parole buone (Edizioni San Paolo, 2020). Scienza, Meraviglia, Impegno, Trasformazione, Condivisione, Saggezza, Visione: sono solo alcuni dei concetti/parole che Astori aiuta a riscoprire e a far rinascere, convinto che se non vengono schiacciati dal peso di dolori, fatiche, lutti e distanziamenti possono favorire la ripresa del singolo e di una comunità.



Come è nato il progetto Parole Buone?

È nato la scorsa primavera quando, nell’immediatezza del primo lockdown, diverse persone in difficoltà nell’adattarsi a questa mobilità forzata mi hanno chiesto, come medico e psicoterapeuta, una parola buona. La richiesta mi ha fatto pensare che una raccolta di queste pillole di resilienza potesse diventare un manuale della vita quotidiana per affrontare la pandemia, che già si delineava come un percorso lungo e difficile.



A che punto è oggi questo progetto, a un anno dalla nascita?

Questi antidoti verbali al coronavirus sono oggi 30, che vengono distribuiti in vari formati. E le persone hanno ancora bisogno di parole che possano permetterci di sottrarci a quella che l’Oms ha definito come un’infodemia. Le parole ricorrenti che nel 2020 hanno invaso i media sono state virus, assembramenti, distanziamento. Invece vediamo che in questa nuova primavera, dove si rincorrono voci come vaccino, antidoto, l’informazione è ancora caratterizzata da una forte pervasività di contenuti allarmanti, che hanno bisogno a loro volta di essere contrastati con parole positive.



A chi hai pensato quando hai raccolto nel libro Parole buone i primi 12 piccoli antidoti?

Il libro nasce per sedimentare in forma cartacea queste parole buone perché non tutti hanno la possibilità di navigare su internet, pur essendo attivati tre canali social, tra cui il sito www.parolebuone.org. Volevo raggiungere il maggior numero di persone possibili, riproponendo i racconti delle prime 12 parole buone con un commento per ciascun capitolo, che potesse permettere a distanza di tempo di fare memoria di un lutto che ha attraversato il nostro paese, favorendone la rielaborazione, che è il primo passo per riavviare una rinascita.

La scienza in questi mesi di emergenza Covid non ha sempre dato buona prova di sé, eppure è stata la prima parola buona inserita nel libro. Perché?

Resta una parola buona. Siamo disorientati dallo scientismo più che dalla scienza, che ha continuato e continua a offrirci l’esempio di un metodo paziente di ricerca, di confronto, di affermazione di tesi suffragate da dati. I progressi della scienza medica compiuti nell’ultimo anno sono davvero incredibili rispetto alla difficoltà di inquadrare e provare a porre rimedio a una patologia infettiva del tutto sconosciuta. A disorientare è la modalità con cui vengono diffuse le informazioni scientifiche, veicolate in maniera contraddittoria e allarmante, mentre i laboratori in cui si conducono le ricerche non esiste affatto tutta questa confusione. Esiste una grande dedizione e accuratezza e questo ha permesso anche di salvare milioni di vite.

Chi oggi ha più bisogno di parole buone?

Le parole buone vengono spezzate per nutrire soprattutto le persone che sono afflitte da un senso enorme di solitudine. Si trovano un po’ in tutte le generazioni: ci sono giovani che vivono un drammatico isolamento e che la pandemia ha ulteriormente aggravato; ci sono persone che a causa di un umore depresso o di altre patologie psicologiche vivono già spaventate; ci sono anziani che nel tempo hanno visto infragilirsi i loro contatti e rapporti con parenti e amici. Le parole buone sono fortemente desiderate e richieste proprio da coloro che ne fanno un’occasione di legame a un progetto che è mirato a sostenere un’intera collettività che sta camminando, insieme, pur tra enormi difficoltà. È molto importante per sostenere le persone che pensano di essere molto sole nel loro cammino di vita.

Nel libro ci sono tre parole che, a prima vista, sembrano stridere con quanto è successo nell’ultimo anno, segnato da fatica, difficoltà, lutti. Sono lode, meraviglia, occasione. Che cosa l’ha colpita tanto da meritare di essere lodata?

La lode è scaturita guardando la dedizione degli operatori sanitari che si sono, e si stanno ancora, spendendo, sacrificando la loro attività ordinaria e gestendo situazioni cliniche davvero emergenziali.

Dove nasce la meraviglia?

Dal vedere come il lockdown e lo svuotamento delle città potessero metterci in contatto con la natura, che ci ricorda come non ne siamo padroni, tanto che basta un piccolissimo elemento biologico per disorganizzare la nostra vita quotidiana.

Perché il Covid è un’occasione?

Occasione è uno dei principi della resilienza. Per essere resilienti occorre avere questa capacità di stupirsi e di ringraziare, cogliendo quel dettaglio che può scrivere un finale alternativo, che metta in moto una progettazione nuova. A volte questa occasione ci è fornita proprio dall’inciampo, dall’imprevisto. In fondo la resilienza consiste proprio in questo: non una resistenza passiva, nel semplice tentativo di contrastare l’ostacolo, bensì cercare di approfittare dell’energia e del ripiegamento cui l’inciampo ci costringe per avere un colpo di reni, che ci rimetta in posizione, magari inaspettata ma più rigenerativa.

Tristezza, ansia, incertezza, paura, rabbia, rassegnazione: questi stati d’animo si sono presi la scena in quest’anno di Covid. Che ferite ha lasciato questa emergenza?

Sicuramente la reazione generale, prima ancora dell’ansia e della rabbia, è stata quella del diniego: una sorta di sottovalutazione del pericolo, un po’ come i bambini quando si trovano di fronte a qualcosa di inaspettato chiudono gli occhi come se questo non vedere potesse in qualche modo risolvere la paura. Poi, lentamente, questa sensazione di mancanza di sbocchi si è trasformata in una forte irritabilità, ancor più evidente in alcune fasce della popolazione: bambini e adolescenti, che non trovano la loro naturale possibilità di movimento e di incontro, e le persone anziane, che hanno visto accorciarsi la prospettiva di un’esistenza serena negli ultimi anni della loro vita.

Si potranno mai lenire questi sentimenti di negazione e di rabbia?

La possibilità di oltrepassarli passa attraverso un’assunzione adulta del dramma che stiamo vivendo. Bisogna saper affermare con consapevolezza che ciò che è stato prima della pandemia non sarà più, che certi ritmi di vita disumanizzanti in una società abituata a correre freneticamente e orientata quasi esclusivamente al successo individuale non era un mondo felice. Occorrerà ricostruire la ripresa su ben altre basi.

Dopo un anno di lotta e di convivenza con il Covid, qual è la parola buona da spendere, ripetere, ricordare oggi?

Direi la parola scelta. La pandemia, richiamandoci all’essenziale, ci invita a operare scelte, anche coraggiose e rischiose. È come se in questo momento fossimo chiamati a preparare lo zaino per affrontare un viaggio importante: occorre selezionare che cosa mettere sulle spalle, non tutti gli strumenti sono importanti allo stesso modo, non tutti i pesi possiamo portare con noi. Occorre avere l’attitudine di chi si prepara a camminare a lungo: saper scegliere che cosa portare di essenziale e avere il coraggio di lasciare ciò che non serve più fa la differenza rispetto al raggiungimento o meno di una meta. E bisogna saper rischiare, come ci ha mostrato Papa Francesco, che ha portato gli occhi dell’umanità dove tantissimi secoli fa Abramo ha messo insieme lo sguardo fissato alle stelle con i piedi ben piantati per terra. Doveva mettersi in cammino e ha scelto con cura quali astri e quali orizzonte lo avrebbero guidato.

(Marco Biscella)

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