Il cuore dell’uomo è un abisso. Può concepire cose grandi e belle o può arrivare a violenze nauseanti, tali da far sentire il fetore (tristo fiato) del canto XI dell’Inferno dantesco. Nelle donne, poi, la profondità di una scelta decisiva che riguarda il destino ultimo risuona con un accento anche più drammatico. Consideriamo, allora, i diversi comportamenti delle donne di fronte allo scellerato potere mafioso. Ci sono state donne che si sono ribellate al dominio della criminalità, pagando con la vita il coraggio della loro scelta (Rita Atria, Lea Garofalo). La loro coscienza ha gridato un no ultimo e definitivo al male morale per amore.  Ha narrato le loro storie sofferte il sociologo Nando Dalla Chiesa nel recente volume Le ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore (Solferino, 2024).



Altre donne, invece, hanno fatto la scelta opposta, perpetuando i disvalori della criminalità nella loro famiglia o subentrando ai loro uomini in carcere nella gestione dei denari o addirittura nella guida dei clan. La loro decisione si è, così, incollata alla carta moschicida del potere. La complessità di quel mondo femminile mafioso è stata studiata da Renate Siebert, allieva di Theodor W. Adorno, nel libro Le donne, la mafia (Il Saggiatore, 1994).



C’è poi un fenomeno poco noto che supera, per la sua oscura gravità, la bruttezza morale delle azioni delle donne di mafia. Si tratta di una storia poco conosciuta: quella delle donne presenti nei luoghi delle stragi di mafia del 1992 e del 93. Massimiliano Giannantoni e Federico Carbone (in collaborazione) ne Le donne delle stragi (Chiarelettere, 2024) hanno dato al pubblico un contributo di conoscenza sul terribile periodo delle stragi. Giannantoni, giornalista investigativo, si è occupato in passato dell’uccisione in Somalia (1993) di Vincenzo Li Causi, militare e agente segreto. Carbone, criminologo, ricopre, a sua volta, il ruolo di perito di parte nella ricerca delle cause del raccapricciante omicidio di Marco Mandolini (1995), incursore paracadutista. Le ricerche dei due studiosi, accomunati dallo sforzo nella ricerca della verità, portano a scenari altamente complessi e a segreti inconfessabili.



Gli autori hanno avuto nella loro attività un mentore d’eccezione cioè il Pm Gianfranco Donadio, che con il suo lavoro sul campo e con la documentazione raccolta ha evidenziato il quadro più ampio e più grave delle stragi del 1992-93. Alcuni fatti: la decimazione della cosca di Altofonte a conoscenza di segreti (il suicidio sospetto di Antonino Gioè, mafioso vicino all’eversione nera ed ex paracadutista), la presenza a Palermo di elementi del neofascismo prima delle stragi, enigmatiche e strane anomalie sulla strage stessa. L’apertura di uno scenario più inquietante sulle stragi viene rafforzata, poi, dalla scoperta su materiali già repertati di tracce genetiche di Dna femminile presenti nelle vicinanze del luogo dove avvenne la strage di Capaci. Le nuove tecniche sono state usate su reperti, catalogati con i numeri “4A” e “4B” consistenti in due guanti in lattice posti a circa 60 metri dal cratere provocato dall’esplosione accanto a una torcia e a un tubetto di mastice. Inoltre, secondo quanto riportato da Pietro Riggio, ex agente di polizia penitenziaria vicino a una cosca nissena, il piano di volo del giudice Falcone e della moglie era sottoposto a stretta riservatezza, essendo effettuato dalla CAI, compagnia aeronautica legata ai servizi di sicurezza. Dunque, la soffiata agli autori della strage di Capaci sull’ esatto orario dell’arrivo di Falcone non poteva non essere partita da servitori infedeli e traditori dello Stato.

Ma c’è dell’altro. Vi sono molte testimonianze convergenti e precise sulla presenza di ben due donne con l’ambiguo “Faccia da mostro”, ex poliziotto, indicato da alcuni pentiti come autore di diversi crimini. Sulle azioni dell’ex poliziotto dalla faccia butterata ha scritto, con dovizia di particolari, Lirio Abbate nel suo Faccia da mostro (Rizzoli, 2021), sottolineando che il corpo di Giovanni Aiello, morto nel 2017 con un malore improvviso e imprevisto, a processo in corso, è stato cremato. L’identità dell’agente dal viso deturpato fu scoperta dal Pm Donadio, indagando sulla morte dell’agente Agostino, che aveva individuato il collegamento tra Bruno Contrada e i mafiosi Nino Madonia e Gaetano Scotto. Donadio afferma nel libro, inoltre, che gli agenti Piazza e Agostino furono uccisi, probabilmente, perché si erano resi conto della presenza di un gruppo interno ai servizi di sicurezza che anziché scovare i latitanti li aiutava a sfuggire alla giustizia. Anche Luigi Ilardo, boss diventato confidente del colonnello Michele Riccio, parlò del personaggio ombra, prima di essere ucciso nel 1996, proprio mentre stava per entrare nel servizio di protezione. Ilardo aveva avuto, in passato, contatti con elementi della destra eversiva, della massoneria e di altre forze criminali: una fonte importante, dunque.

L’ex agente dalla vistosa cicatrice al volto sarebbe stato, inoltre, associato in più riprese a una struttura deviata. Ma, forse, era solo il pezzo di un ingranaggio molto più articolato e complesso. Aiello, peraltro, compare in molte situazioni critiche ed è stato descritto da diversi collaboratori di giustizia come persona priva di scrupoli, vicina ai servizi infedeli allo stato di diritto. Accanto a lui, spesso, due donne. La prima conosciuta con l’alias di “Antonella”, particolarmente pericolosa, sarebbe una tiratrice scelta, addestrata militarmente, mentre la seconda, “Nina”, sarebbe stata vista sul luogo della strage di via Palestro a Milano (1993).

Marianna Castro, ex compagna di un poliziotto indagato in passato per il tritolo della strage di Capaci, nell’intervista contenuta nel libro di Giannantoni racconta di aver visto il marito con “Faccia da mostro”, Antonella e Nina. Poi dice: “A luglio quattro o cinque giorni prima della strage di Milano, mi chiese la stessa cosa: ‘Accompagnami allo svincolo della Roma-Napoli che devo andare a Milano a fare dei rilievi’. Ad aspettare Giovanni c’erano ancora Aiello, Antonella e Nina. Questa volta erano a bordo di una Bmw. Giovanni tornò a casa dopo l’attentato di Milano. All’inizio io non avevo collegato bene tutte queste cose. Poi un giorno ho detto a Giovanni: ‘Ma tu eri lì. A Capaci, a Firenze, a Milano…Tu c’eri sempre’. E lui si innervosì. Mi ripeteva che era lì solo per caso e per fare dei sopralluoghi. Io avevo dei sospetti, anche perché all’inizio della sua carriera aveva fatto un corso da artificiere”.

Nella difficile ricostruzione della verità sulle stragi, in qualche modo, emergono da una serie di tracce alcune faticose certezze. Vi sono state donne che, guidate da un’ideologia buia, hanno contribuito direttamente al male contro vite innocenti. E poi c’è stata la presenza di una struttura delle forze di sicurezza parallela e deviata di obbedienza non italiana o meglio antitaliana e anticostituzionale.

Violenza estrema e tradimento grave, dunque. Viene in mente, a tal proposito, come Dante tratta i violenti contro il prossimo: sono immersi nel sangue bollente del Flegetonte. Nel canto XXXII, poi, il grande fiorentino sbatte con il piede sulla testa di un traditore della patria: il nobile ghibellino Bocca degli Abati. Il sommo poeta, senza rispetto, lo afferra per la collottola e gli strappa più di una ciocca di capelli. Il giudizio di Dante su violenza e tradimento è, dunque, molto severo.

E, tuttavia, le stragi degli anni novanta rimandano non solo a chi ha tradito il tricolore. Fanno ricordare, anche, chi ha dato la vita per la salvezza dello Stato e delle istituzioni democratiche. Pensiamo, inchinandoci ai magistrati uccisi, agli agenti di scorta dilaniati dalle esplosioni e agli uomini dei servizi segreti fedeli allo Stato trucidati (Antonino Agostino, Emanuele Piazza).

Di fronte al dramma della libertà, insomma, le vite si separano e le strade si dividono. Ognuno deve scegliere: uomini e donne.

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