Giovedì 7 e venerdì 8 novembre andrà in scena al Teatro Oscar di Milano la prima parte dello spettacolo di e con Silvano Petrosino, Le fiabe non raccontano favole. Cappuccetto Rosso. Petrosino, docente di filosofia della comunicazione nell’Università Cattolica di Milano, nel 2013 ha pubblicato il saggio filosofico Le fiabe non raccontano favole. Credere nell’esperienza, il cui scopo è affrontare il tema dell’esperienza proprio a partire dalla fiaba. L’autore propone un’originale interpretazione del “viaggio della donna”, come lui stesso lo chiama, attraverso l’analisi di due dei più famosi racconti per bambini – o forse no -, Cappuccetto Rosso e Biancaneve.



Perché la scelta di raccontare attraverso le fiabe?

In realtà il grande tema non sono le fiabe ma è la grande letteratura, il cui merito è quello di rendere testimonianza, o dar voce, o far emergere, alcune verità essenziali dell’esperienza umana – non della vita umana. Io a lezione, per esempio, cito sempre Anna Karenina, Madame Bovary, Joyce. Sono personaggi che, attraverso la finzione narrativa, danno voce, dicono la verità sull’esperienza umana. Le fiabe, invece, hanno il vantaggio di essere testi brevi, in genere conosciuti e che quindi facilitano la lezione, così come facilitano la mise teatrale.



Perché la letteratura, o meglio in questo caso le fiabe, sono una via preferenziale per l’esperienza umana?

Perché l’esperienza umana – uso un’espressione a me molto cara che cito sempre, di Ernst Cassirer: lui parla dell’aggrovigliata trama dell’umana esperienza -, è qualcosa di aggrovigliato, lo gnommero di cui parla Gadda, per esempio, cioè il gomitolo, l’intreccio e questo è chiaro se uno pensa a se stesso. Il logos dell’esperienza umana è un logos narrativo. Cioè, per capire che cos’è l’esperienza umana bisogna far riferimento alle parole e all’intreccio delle parole. Si dice che quando Dio creò l’universo utilizzò la matematica; ma io dico che quando poi Dio pensò all’uomo, allora necessariamente fece riferimento alle lettere, alle parole. Perché l’umano è la parola, l’esperienza umana è intrecciata. E da qui viene poi la parola testo: è un tessuto. 



Ha scelto di parlare in particolare di Cappuccetto Rosso e Biancaneve. Perché? Che verità nascondono? Perché si parla del viaggio di una donna?

Perché una delle grandi verità che le fiabe dicono è quella che io chiamo “la verità della doppia nascita”: si viene alla vita senza deciderlo, ma non si diventa uomini senza deciderlo. L’umano è il frutto di un percorso, di un viaggio, di un’avventura, non è un dato scontato. Per molti di noi il passare del tempo sarà soltanto il fatto che diventeremo vecchi e questo è rappresentato dalla figura della nonna di Cappuccetto Rosso: diventi vecchio, non diventi un uomo. Io insisto, anche nel libro, che queste due fiabe raccontano un percorso, un diventare uomo, in questo caso donna. Le fiabe sono serie e non hanno il problema di sposare una causa, ma hanno a che fare con l’umano. Allora la cosa interessante è che in Cappuccetto Rosso l’ostacolo che impedisce, o tenta di impedire, il diventare donna della bambina, è il maschio, il lupo seduttore. Nella versione di Perrault la fiaba finisce con il fatto che il lupo mangia Cappuccetto Rosso e non c’è il cacciatore. Per Perrault il seduttore trionfa e la bambina non diventa mai donna. Per Cappuccetto, allora, l’ostacolo è un essere maschile. In Biancaneve l’ostacolo è invece una donna, cioè l’altra donna. In questo caso è la matrigna (nella versione dei fratelli Grimm), in altre versioni l’ostacolo sono le sorelle e talvolta, e questo è pazzesco, la madre. Essa si vede insidiata nel suo privato dalla figlia che sta diventando donna e quindi la ostacola.

Sono posizioni, per così dire “soluzioni” molto diverse.

La cosa interessante è queste due fiabe vanno lette insieme proprio per questa molteplicità di questioni. Fra l’altro, tutti i valori nelle due fiabe sono invertiti: in Cappuccetto Rosso il bosco è indice di pericolo, mentre in Biancaneve è il luogo della protezione; il maschio (il lupo) in Cappuccetto Rosso è il pericolo, in Biancaneve, invece, le figure maschili sono tutte positive.

Che conclusioni ne trae?

L’esperienza umana è atroce. Gli studiosi parlano dell’onestà della fiaba. Essa dice poche cose e non mente. Ad esempio, in una delle versioni di Cenerentola le sorellastre tentano di indossare la scarpetta e abbiamo il taglio del calcagno e delle dita. Il raggiungimento del fine giustifica qualsiasi mezzo, compresa la mutilazione di sé stessi. Ma questa è la logica dei giorni nostri. 

Il suo lavoro parte da un saggio. Perché portare questo stesso lavoro in teatro e a chi si vuole rivolgere?

In realtà avevo già avuto un’esperienza teatrale e ho visto che ha funzionato. Questi testi sono così ricchi ma purtroppo sono stati distrutti ed estremamente banalizzati. Proprio per la loro brevità e densità si possono però capire tantissime cose. In questo senso mi sembra che la versione teatrale possa aiutare. Io penso che tutto questo sia una scommessa: non ridurre tutto solo a spettacolo ed effetti speciali, ma di fare una cosa in cui lo spettacolo è al servizio dei contenuti. Io, infatti, la presento come lezione-spettacolo. Qualcosa che possa parlare a un pubblico più ampio di una classe universitaria, ma anche ad un pubblico che voglia passare del tempo lasciandosi interrogare. La sfida è dunque quella di pensare a un’idea di teatro che non sia solo un passatempo. 

(Clara Sozzi)