Morte di Adamo, raccolta di racconti di Elena Bono, è un ampio affresco narrativo della passione di Cristo riletta e anche immaginata attraverso lo strumento concreto di una scrittura di rara bellezza. Ne La moglie del procuratore, originariamente incluso in questa raccolta e poi ripubblicato da Marietti in un volume a sé stante nel 2015, è Claudia, la moglie di Pilato, a raccontare i fatti che seguirono la morte di Gesù. In questi racconti emergono figure e vicende un po’ secondarie rispetto ai passaggi e ai protagonisti centrali nei Vangeli, ma nelle quali la scrittrice si immedesima con grande acume e inventiva: la suocera di Pietro, il centurione Marco. In Piccolo Abi, racconto del quale proponiamo ai nostri lettori uno stralcio come lettura nel giorno del Giovedì Santo, gli apostoli a Gerusalemme sono in cerca di un luogo che possa ospitare Gesù e i suoi per la cena. Nei racconti di Elena Bono Gesù non compare mai, se non in istanti di silenzio che accompagnano il clamore circostante: eppure quell’uomo è la grande presenza intorno al quale ruotano le vicende dei personaggi. Ha scritto Alessandro Banfi nella Prefazione ai racconti della Bono: “In un certo senso siamo fatti perché ci vengano raccontate delle storie, e se c’è una storia che ha una forza magnetica unica e che da sempre catalizza l’attenzione, è la vicenda di quell’uomo che si faceva chiamare Gesù, il figlio del falegname di Nazareth”.
Elena Bono, morta dieci anni fa, è una scrittrice dalla lingua ricca, colta, affascinante, fitta di citazioni storiche, classiche, filosofiche. La sua opera è stata tradotta in inglese, francese, spagnolo, portoghese, arabo, svedese, greco. Per Stas’ Gawronski è stata la maggiore autrice del dopoguerra, sebbene dimenticata dai giornali e dalle antologie: “È una scrittrice della realtà”, ma al tempo stesso sottilmente visionaria. La sua è una pagina che va percorsa senza fretta, negli ampi giri che compie per arrivare al punto, senza mai mancare d’esser chiara.
Nata a Sonnino, nel Lazio, nel 1921, Elena Bono esordì nel lontano 1948 con la raccolta di poesie I fenicotteri. Il suo primo libro di narrativa, Morte di Adamo appunto, uscì (con Garzanti) nel 1956 e fu un grande successo, anche a livello internazionale. Nice-Matin lo salutò come “una rivelazione della letteratura italiana”, il Daily Telegraph parlò di “una qualità numinosa” del testo.
Veniva da una famiglia laica. Nel ’79 il Partito repubblicano la candidò per le prime elezioni parlamentari europee. Sua nonna era imparentata con Benedetto Croce, la famiglia del marito Gian Maria Mazzini era un ramo di quella del fondatore della Giovine Italia, ma forse legata ancor più a quella di Garibaldi. Negli anni 60 Pier Paolo Pasolini lesse il racconto di Elena Bono La testa del Profeta, su Giovanni Battista, e le chiese di poterne trarre un film. Lei rifiutò: “Non mi sembrava il caso – ebbe a dire – di celebrare questo tipo di ‘nozze mistiche’. A Pasolini non perdonavo che lui, fratello di uno che era stato ucciso, con tutta la Brigata Osoppo, dai comunisti, facesse il comunista”.
La Settimana Santa per lei è sempre stata un momento di riflessione sul testo dei Vangeli, alla ricerca della loro profonda verità umana: “C’è in noi – diceva – la forza brutale dell’animale della foresta, che nella natura ha imparato anche a difendersi ma sempre comunque ad assalire. La rivoluzione di Cristo ha ribaltato tutti i termini, ha dato il primato alla debolezza e all’innocenza”.
(Carlo Dignola)
Da “Piccolo Abi”, racconto di Elena Bono sull’Ultima cena (stralcio)
“Presto, Tommaso, vieni a vedere”.
Insieme guardarono dall’inferriata, scostando appena i pampini della vite. Su un sedile di pietra in giardino, stava seduto Abi, e l’agnello gli teneva la testa sulle ginocchia. Il vecchio lo accarezzava, carezza dietro carezza, e si scorgeva il tremito delle sue mani.
“Ma che fa?” mormorò Tommaso. “Gioca coll’agnello, invece di pensare alla cena. Già, i pazzi. Guarda com’è curato il giardino, le siepi. E la vigna è un bosco da farci legna”.
“Piange, Tommaso. Abi piange”.
“Dove mai? Sta parlando con l’agnello… qualcosa borbotta”.
“Piange anche. Piange piano per non farsi sentire. Che gli è successo, Tommaso?”.
“Ma no che non piange. Gioca e parla, come gli passa per la mente. I matti si credono di essere capiti dalle bestie, i più gran discorsi se li fanno con loro”.
“lo degli anni fa, parlavo sempre con un gallo che avevo e che agli altri gli saltava agli occhi”.
“Anni fa eri un bambino. Adesso è differente”.
“È tanto differente che prima, se lo vuoi sapere, ci ho parlato pure io con quell’agnelletto. E gli ho detto male di te, se lo vuoi sapere”.
Tommaso rise e scosse il capo.
“Guarda, Tommaso, se l’è preso in seno. Guarda se non piange”.
Il vecchio, appoggiato il viso al piccolo muso dell’agnello, stava così, senza più parlare. Ora che s’era voltato verso di loro, anche Tommaso vide le lacrime scendere per le appassite oscure guance. I due si trassero indietro.
“Se piangono o se ridono”, disse piano Tommaso, “per loro è tutto lo stesso. Non la sanno la ragione”.
“Sono lacrime vere anche quelle dei matti, sono salate anche le loro. Eh, dove se ne va, Tommaso?”.
Il vecchio s’era alzato in piedi, s’era messo l’agnello sulle spalle e tenendolo per le zampe che gli pendevano sul petto, rientrava nella casa per la porta della cucina. Tommaso e Giovanni si fecero sulla soglia del cenacolo: lo videro riuscire dalla cucina e dirigersi alla porta di casa. Adagio, senza essersi detto nulla, gli tennero dietro; si fermarono a guardare dal limitare.
Il vecchio se n’andava per il lungo pergolato, coll’agnelletto sul collo.
“Dove va?” disse Giovanni inquieto. “Va al Tempio a farselo uccidere, vedrai. Ora lo chiamo. Abi”.
“Zitto, prende dalla parte delle casupole. Se no, prendeva giù per andare in città”.
“E che ci va a fare dalle casupole?”.
“Ma non lo so, Giovanni. Sarà andato a nascondere l’agnello per paura che glielo portiamo via. Va’ a capire”.
“Se aveva lasciato sola in casa la coppa d’oro, non è uno che va a nascondere l’agnello”.
“Ma chi lo sa, magari crede di portarlo a pascolare. Si crederà che è mattina. Son fatti così”.
“Può essere. Ma io vado a vedere dov’è che è andato”.
“Va dove vuole andare, a Dio piacendo, Giovanni. E tu mettiti un po’ fermo, a Dio piacendo, perché è già una rete imbrogliata abbastanza”.
“È qua che torna, è lui. Dov’è l’agnello? Non ce l’ha più, Tommaso”.
“Vieni dentro piuttosto. Non sta bene avere l’aria d’esser stati a spiare”. Andarono a sedersi in cucina, sulla panca vicino al focolare. Di lì a poco entrò il vecchio, fece un sorriso incerto nel vederli e sedette anche lui, con le mani in mano, guardando con i piccoli occhi arrossati, sulla pietra spenta.
“Ecco qui”, disse dopo un lungo silenzio, come parlando da solo. “Ora è proprio fatta, Abi, e foglia caduta dal ramo, non ce la puoi riattaccare. Ecco che non viene più, Abi, a leccarti le mani. Figliolino mio, ecco che non vieni più”. Si mise a piangere, appoggiando il viso al pugno chiuso. Giovanni si chinò su di lui. “Dov’è l’agnelletto, Abi? Dillo a me. Te l’hanno portato via?”.
Il vecchio s’attaccò alla sua mano. “Ah mio caro, mio caro. Non viene mai una gioia pei figlioli d’Adamo, se non ci viene insieme qualche sospiro. Ecco che stasera il mio Signore ritorna, che l’ho aspettato tanti anni, viene stasera a casa sua a far la Pasqua cogli amici e Abi quasi muore dalla gioia, verità di Dio. È più contento stasera, Abi, che il giorno che si prese in moglie la povera Sarina tanto tempo fa. Dio lo sa che è vero. Dio benedica il mio Signore e i passi che lo portano verso la sua casa”.
Alzò la mano a sfiorare il viso di Giovanni. “Tu, caro, non glielo dire che ad Abi gli è scappato da piangere. Non gli dire nemmeno che quello era l’agnelletto di Abi… L’avevo trovato nella vigna, che s’era sperduto da qualche gregge… era appena nato. Abi è stato la sua madre e il suo pastore, Abi gli parlava… gli faceva prendere il latte da quella scodelletta… lo teneva caldo. lo gli tenevo lontano quei bambinacci… i sassi che tirano. Lo sapevano, loro, che se mi spaccavano le robe in cantina, tanto tanto… ma l’agnelletto guai se lo toccavano. Era solo lui che ci avevo… era solo lui. Eh per un agnelletto, mi dirai, sei stupido, Abi. Pure io lo dico… ma sebbene che era solo un agnelletto, era l’unico che stava con me… e dopo… mi pareva anche… sono stupido, dirai… ma mi pareva che si somigliasse ai miei piccoletti… ai miei figliolini che mi sono morti tutti che appena cominciavano a camminare… e l’ultimo non è nemmeno nato, se n’è andato via con sua madre, senza che neppure gli potessi dire: ‘Figlio mio, come mi sei venuto, così ti ridò indietro al Signore Iddio. E viva sempre il Signore’. No, neppure l’ho visto… non lo so com’era… m’è rimasto anche senza nome… povero figliolino. E quando penso a lui… gli altri li chiamo per nome uno a uno… ma lui non lo so come lo devo chiamare. Non lo so”.
“E il tuo agnelletto dov’è?” disse Giovanni. “Cosa hai fatto?”.
“Non mi sgridare, caro”, sorrise quasi timoroso il vecchio fra le lacrime. “Il mio Signore non aveva la sua Pasqua, se no”.
“E tu l’hai…”.
“No, no, io non potevo, caro… le gambe non mi reggevano… L’ho dato a quelle donne… c’è una scorciatoia qui di dietro… in un momento ci arrivano al Tempio. Oh andranno svelte, andranno sì, di passo buono! Non lo potevano soffrire l’agnelletto di Abi”.
Puntellandosi con le mani alle ginocchia, faticosamente s’alzò. “Adesso accendo il fuoco… Tu non glielo dire al Signore che Abi piangeva. Nessuno sa che festa fa il cuore di Abi, perché torna il Signore. Ma è che la gioia non viene mai essa da sola pei figlioli d’Adamo. E tante volte mi passa in mente, non ridere, caro, mi passa che fino il Signore Dio nostro lassù, coi beati angeli e le stelle e i cieli, neppure lui, mi sa che ha tutta gioia in cuore. Un padre, figlietto mio, ci ha sempre il suo sospiro”.
Cominciò a disporre sul focolare, con mani tremanti e pur accorte, le fascine che Giovanni gli passava. Poi Giovanni prese dal forno della brace ancora viva e ambedue soffiarono finché la fiamma s’appiccò con avvampare subitaneo al castello di ramaglie. Allora il vecchio andò a prendere dal ripostiglio una bracciata di altri rami e un pezzo di legno schietto e ben squadrato.
“Questo è cedro, mio caro. Guarda com’è bell’asciutto e senza magagna: un legno di parola, questo qui; niente fumo, mio caro, e tutto odore. Lì ce n’è un bel po’… l’ho tenuto tutto da parte per il mio Signore, da quella volta che il fulmine gli diede fuoco qui in giardino. Era un grand’albero, ci si riparavano tutti gli uccelli… fu un dolore, mio caro, ma poi gli ho fatto questo ragionamento: ‘Anche da morto, sei buono per il Signore quando verrà. Siamo tutte cose sue, mio caro’. L’istesso gli ho ragionato all’agnelletto, gli ho detto così che non la pigliasse per male. ‘Figliolino mio’, dico, ‘perdona. È per il Signore che viene a far la Pasqua; per il figlio unico di suo padre che torna a casa. Non ce l’ho io il denaro per comprare un altro agnelletto. Se si poteva, figliolino mio, piuttosto gli davo la mia, di carne’. Che dici, si sarà persuaso? Gli sarà parso un tradimento a ritrovarsi là per quella strada, in quelle mani… non sono, no, le mani di Abi… e dopo là, fra tutto quel sangue… e il coltello…”.
“No… Abi… no”, disse Giovanni e si volse a Tommaso, che silenziosamente s’era ritirato dal focolare e sedeva in un angolo della cucina, in ombra.
“Buon uomo”, disse Tommaso. “Dio benedica il tuo cuore fedele”.
“Chi è?” domandò il vecchio protendendo il viso lacrimoso in direzione della voce.
“Un amico del Signore, anche lui”, disse Giovanni.
“Cosa dice? Arriva il Signore? Non arriva più?”.
“Sta’ tranquillo”, rispose Tommaso, “il Signore verrà”. E Giovanni gli ripeté lietamente le parole.
“Lode a Dio”, disse il vecchio. “Accendiamo i lumi”.
Staccò una piccola lucerna a olio, l’accese e con essa fece il giro di tutta la casa, accendendo le lampade via via. Tommaso e Giovanni gli andavano dietro passo per passo. E da ultimo entrarono nel cenacolo e quando il vecchio accostò la fiamma al limpido olio dei candelabri, anch’essi mormorarono: “Lode a Dio”. Ardevano i candelabri d’argento come arbusti ramificanti, ne sfavillava l’aurea coppa e più fiocamente le dodici di ceramica. Ma come la luce serale veniva color viola, e già le parti remote della stanza erano oscure, nasceva dalle due luci, del cielo e delle lampade, una penombra come un velo tremante davanti alle cose. E v’era un grande silenzio. Essi sedettero su un’antica panca presso il muro, guardando.
“Non staran più tanto a venire, quelle”, disse il vecchio dopo del tempo. “A quest’ora non ce n’è più di gente lì… non c’è da aspettare…”. Le parole si perdettero in balbettio. Né Giovanni né Tommaso seppero cosa dire.
Il tempo passava nel silenzio, finché si udirono le donne chiamare dalla soglia di casa: portavano l’agnello già pronto sullo spiedo, coronato di alloro e un mazzetta di erbe odorose per l’haroseth.
Giovanni che era corso come a rifugiarsi nella cucina, sentì una voce di donna che diceva: “Ci manca il mirto, noi non ce l’abbiamo”.
“Andate, andate adesso”, badava a ripetere la vecchia voce di Abi. “Avete fatto tutto bene… tutto bene…”. E la porta che si richiudeva e Abi che diceva: “No, no, lascia… me lo porto io”.
Giovanni si piegò rapido a nascondere sotto un sedile la scodelletta con ancora un po’ di latte, che stava in terra presso l’acquaio.
Reggendo lo spiedo, ma senza guardarlo, il vecchio andò diritto al focolare e lo mise sopra la brace. Giovanni vagava per la stanza, Tommaso disse: “Dai a me, Abimelec”, ma il vecchio fece di no con la testa e si mise a girare lo spiedo lentissimamente da esperto cuciniere. E dopo aver ben inghiottito, cominciò a parlare e parlare, raccontando di quando il suo Signore era bambino e tutta la casa era piena delle sue piccole strida e dei suoi piccoli passi. “Ah, il mirto, vecchia testa stupida”, s’interruppe. “Reggi qui, lo vado a pigliare”.
Ma Giovanni era balzato su, prima che il vecchio si muovesse, e correva in giardino, ma ancora poté sentire che diceva: “Che bel figliolino. Mi pare di vedere il mio Signore, quando aveva la sua età”. E la voce grave di Tommaso che rispondeva: “Sì, assomiglia al Signore”.
Giovanni si portò la mano sopra il cuore, che gli batteva forte. Poco lontano era il cespuglio in cui s’era rifugiato l’agnello e lui ci aveva ragionato insieme. Stette un poco così, sotto il tranquillo cielo e fra le piante tranquille. Si cominciava a disegnare per terra l’ombra delle cose e l’aria diventava verde, segno che la luna veniva su dai monti, ma dal giardino ancora non si vedeva. Colse qualche ramoscello di mirto: il cespuglio era fresco e la mano del giovanetto passò e ripassò tra le foglie. Dalla cucina giungeva un leggero fumo odoroso. Lentamente Giovanni rientrò.
Il vecchio parlava sempre e Tommaso ascoltava attento, rimescolando l’haroseth. Giovanni aggiunse agli aromi qualche fogliolina di mirto, le altre che rimasero le sparse sull’agnello. Allora il vecchio si chetò per un poco, e si sentirono in quel silenzio le donne che discorrevano fuori delI’uscio. I bambini s’erano arrampicati all’inferriata della finestrella che dava sul pergolato e guardavano dentro con gli occhi sgranati, senza fiatare. Abi riprese a parlar fitto dei suoi vecchi ricordi; ogni tanto rideva con un piccolo sussulto delle spalle e s’asciugava le lacrime che facilmente gli riempivano gli occhi; qualcuna ne cadde sopra l’agnello. Giovanni s’era seduto accanto a Tommaso, col capo appoggiato al muro, ascoltando e non ascoltando, come in sogno.
“Eccolo, eccolo”, gridarono a un tratto i bambini, lasciandosi scivolar giù dalla finestra e correndo via per il pergolato.
Il vecchio s’alzò tutto pallido e tremante, prese a sciogliersi il grembiule, ma le mani non riuscivano a districare il semplice nodo. Giovanni cercò di aiutarlo, ma anche le sue dita erano incerte e il vecchio non stava fermo, voleva sciogliere lui, fare in fretta. “Oh Signore oh Signore”, balbettava. “Gloria dei cieli… aprite aprite la porta al Signore… troverà chiusa la porta… la porta di casa sua”. Sciolto il grembiule, fece per correre, gli mancarono le gambe, dovette sedersi. “Aprite… Girate l’agnello… oh Dio…”.
“Calma”, disse Tommaso, “calma”, con la voce che gli tremava; intanto non sapeva che fare e stava dritto in mezzo alla stanza. Giovanni si slanciò alla porta. “Giro io l’agnello”, disse Tommaso, “a Dio piacendo”.
Il vecchio fu di nuovo in piedi, raggiunse col suo passetto Giovanni presso la porta spalancata, Giovanni che stava immobile accanto allo stipite. Inciampando il vecchio montò lo scalino.
Veniva verso la casa una piccola folla: avanti i bambini, camminando all’indietro, dalle parti le donne con i lattanti in braccio. Giovanni riconobbe nel mezzo, fra gli uomini, la veste del Maestro e si coprì gli occhi.
E il Maestro fu sulla soglia. Il vecchio gli afferrò la mano piangendo dirottamente.
“Ah, Signore… sei tornato”, singhiozzò, “sei tornato… Non andare più via… Non andartene più”.
Pianamente il Maestro ritirò la sua mano e gliela pose sul capo.
© 2024 Il Portico Spa, via Scipione Dal Ferro, 4, 40138 Bologna. Marietti1820 ®; www.mariettieditore.it
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI