“La guerra è una cosa triste, ma ancora più triste è il fatto che ci si fa l’abitudine”. È la drammatica frase d’apertura del libro-reportage Pelle di leopardo, il primo diario da inviato di guerra di Tiziano Terzani, scritto nel 1973, un anno di cronache nell’inferno vietnamita durante l’offensiva di primavera delle forze comuniste, che causò centinaia di migliaia di vittime.



Sono passati più di cinquant’anni e la lunga e sanguinosa guerra in Vietnam è finita, ma molte altre ne sono scoppiate da allora, accompagnate da efferati atti di terrorismo. E l’assuefazione ai massacri e ai crimini contro l’umanità non è venuta meno. Terzani, fiorentino di nascita ma cittadino del mondo, affascinato dall’Oriente e dalla sua spiritualità, ha raccontato i conflitti armati per tre decenni, prima di ritirarsi in una capanna sulle pendici dell’Himalaya, scegliendo il silenzio e la solitudine, vicino al divino. I tragici eventi dell’11 settembre 2001, con l’abbattimento delle Twin Towers, l’hanno distolto dal suo eremitaggio, spingendolo a farsi appassionato “corrispondente per la pace”, come opinionista e scrittore schierato contro ogni violenza. In quel periodo, nei primi mesi del 2002, tenne anche una serie di conferenze e incontri che lo videro, già malato, parlare nelle piazze, nelle scuole, nelle carceri e persino nei conventi.



Quattro interventi tra i più significativi di quel “pellegrinaggio di pace” sono stati raccolti in un volume curato da Mario Bertini con il titolo Le parole ritrovate. Nel mondo, dentro l’anima, ripubblicato (Scholé, Brescia) in occasione dei vent’anni dalla scomparsa del giornalista, avvenuta a Orsigna, sull’Appennino piacentino, il 28 luglio 2004. Ma chi era davvero Tiziano Terzani? Un bravo cronista, un militante pacifista, un guru? Il politologo Giovanni Sartori (anch’egli fiorentino e di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita) l’aveva definito “il sognatore dell’Oriente”, altri “uno dei più grandi giornalisti dei nostri tempi”, “un simbolo ideale per i costruttori di pace”, “un testimone privilegiato che guarda la storia degli uomini con gli occhi di un uomo libero”. Agli studenti liceali a cui si rivolge nell’incontro del 27 febbraio 2002 si presenta semplicemente come un “fiorentinissimo barbone vestito di bianco”.



Giorni prima, il 21 febbraio, agli studenti delle medie di Scandicci, con un linguaggio colorito e schietto aveva detto: “Io sono di qua, perché sono nato davanti al pisciatoio di via Fra’ Filippo Lippi a Monticelli [un quartiere di Firenze, ndr], nel 1938”. Per poi aggiungere: “Ero povero, povero in canna! Mio padre era un operaio, e sono il primo della mia famiglia che sa leggere e scrivere”.

Povero lo era veramente, Terzani. Un bravo professore, lui tredicenne, intuendo il talento del giovane Tiziano chiese ai suoi genitori di non mandarlo a lavorare ma di farlo studiare. Così il papà e la mamma gli comprarono il primo paio di pantaloni lunghi. Pagandolo a rate, “che seguitammo a pagare per un anno perché” – ricorda – “andavo con la mi’ mamma tutti i mesi a pagare la rata”. Poi il liceo, la maturità con il massimo dei voti, la borsa di studio per la Normale di Pisa, la laurea e il primo impiego alla Olivetti, prima di diventare corrispondente per il settimanale tedesco Der Spiegel dall’Asia, dove vive per trent’anni con l’amatissima moglie Angela e i figli Saskia e Folco, collaborando anche con alcune testate italiane e pubblicando libri, tradotti in molte lingue, che raccontano le vicende di cui è attento testimone. Le parole ritrovate, riprendendo gli incontri pubblici del dopo-Torri Gemelle – considerato un autentico spartiacque – ci fa riflettere sulla guerra, la pace, la violenza, le spietate logiche di potere. Ma è anche, due anni prima della morte, un bilancio esistenziale dell’autore su temi essenziali come la vita, la morte, l’amore, la famiglia, gli ideali giovanili, il rispetto degli equilibri della natura, la banalità di una società ipertecnologica vuota e preda del consumismo, tuttavia assetata di spiritualità.

Mai attratto dalle sirene del successo, pur molto popolare e apprezzato dai suoi lettori non amava le luci della ribalta e i salotti televisivi, che disdegnava, preferendo il contatto diretto con la gente. Ripeteva spesso, a chi glielo chiedeva, di non essersi convertito né al buddismo né all’induismo (anche se ne era fortemente influenzato) e di non avere ricette e risposte preconfezionate sui mali del mondo, piuttosto di essere abituato a porsi delle domande, ad avere dubbi. Prima di giudicare voleva conoscere da vicino, per questo si immergeva nelle realtà e nelle culture che si trovava di fronte, studiandone usi, costumi, lingua e persino vestendosi allo stesso modo. Non un vezzo, ma un metodo di conoscenza.

“Occorre ricominciare a pensare”, diceva. Perché noi occidentali siamo “moralmente assopiti”, incapaci di cambiare punto di vista e di incontrare, capire e valorizzare l’altro. “Ci sono milioni di persone al mondo che non vogliono vivere come noi”, sosteneva. E criticava la pretesa di togliere il burqa alle donne afghane che invece, ne era convinto, volevano tenerlo per sentirsi protette. Pensava pure che il terrorismo non si potesse giustificare e va combattuto, ma bisogna anche comprendere le ragioni che spingono i terroristi, a volte giovanissimi, ad imbracciare le armi e a uccidere innocenti inermi. Una posizione che oggi difficilmente sarebbe condivisa.

Nell’incontro coi ragazzi del liceo classico fiorentino Michelangiolo parla apertamente di innamoramento, rapporti affettivi, fedeltà. L’approccio è fulminante: “Mi permettete di parlarvi un attimo dell’amore?”. Non sesso, amore. Sul finire degli studi universitari, rivela, “mi ero già innamorato perso di una donna […] dopo quarantadue anni è ancora mia moglie, una cosa che auguro a tutti voi, perché è bellissimo questo crescere insieme a qualcuno”. Per poi aggiungere: “Io non mi vergogno a dire che quel che vedete qui, davanti a voi, è in gran parte il frutto del rapporto con questa mia straordinaria compagna”. Splendido. Chi oggi, nel mondo laico e non solo, nell’epoca delle relazioni “liquide” (cioè inesistenti) si esprimerebbe così? Nel soggiorno in India ebbe modo, tra l’altro, di conoscere e ammirare madre Teresa di Calcutta, al punto di mandare per qualche tempo il figlio Fosco a vivere quella esperienza unica di carità, accanto ai più derelitti e ai moribondi.

Pace, amore, fratellanza, accoglienza, cuore, speranza, serenità, destino, essere, sono le parole da “ritrovare”. Guerra, armi, massacri, violenza, prevaricazione, materialismo, rifiuto dell’altro, ansia, possesso, sono invece le parole da dimenticare. La lettura di Terzani, in questa estate così convulsa, ci può aiutare a distinguere le une dalle altre.

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