“La grammatica si stende come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! De’ quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio”: così la relazione di una commissione, che aveva quale esponente di spicco Giovanni Pascoli, incaricata nel 1893 di una ricognizione sullo studio del latino nelle scuole italiane. Il quadro che ne emergeva non era troppo incoraggiante. Soprattutto con la seconda metà dell’Ottocento, quando a scuola viene adottato il cosiddetto “metodo scientifico” di provenienza tedesca, cominciano per gli studenti quegli aspri patimenti rimasti in sostanza inalterati fino alla fine del secolo successivo, come sa bene chi abbia frequentato un ginnasio ancora all’inizio degli anni Novanta. A quella stessa epoca risale il legame fatale col greco antico, che ha poi stabilmente relegato il latino nell’ambito degli studi classici.
E oggi, ha ancora senso parlare del significato del latino per la cultura europea? E avrebbe ancora un senso l’insegnamento di una lingua morta? Il problema è naturalmente pieno di sfumature, che vengono affrontate in modo sintetico, preciso e sempre brillante nell’agile libro di Guido Milanese, Le ragioni del latino (Morcelliana-Scholé, 2024). L’autore, professore ordinario di lingua e letteratura latina e docente di cultura classica, letteratura comparata e informatica umanistica nell’Università Cattolica del S. Cuore, docente di latino e Digital Humanities nell’Università della Svizzera italiana, nonché studioso di canto liturgico, afferma che, per affrontare razionalmente la questione, si debba prima di tutto sgombrare il campo da radicati malintesi. “Il latino insegna a ragionare!”, “la lingua di Cicerone!”, “il greco e il latino!”: con delicata fermezza Milanese mostra come l’idea che lo studio del latino insegni a ragionare più di quello di un’altra lingua sia semplicemente infondata e che l’innaturale e inscindibile associazione al greco antico abbia recato più che altro danno al latino. Inoltre, se quest’ultimo è soltanto la lingua dell’antica Roma, davvero non c’è motivo che venga studiato, se non da una ristrettissima comunità di classicisti.
Il punto è: le cose stanno veramente così? Il latino rappresenta solo un accesso a Cicerone e Virgilio? Secondo Milanese, e questa rivoluzione copernicana è uno degli aspetti più interessanti e convincenti del suo libro, il latino è ben altro, è cioè la lingua che ha costituito il collante linguistico, intellettuale e culturale di più di duemila anni di storia europea. “Attraverso il latino l’Europa fu capace di assimilare l’eredità della cultura greca, di ridefinirla nel Cristianesimo e di distribuirla alle singole culture nazionali. Questo è il ruolo storico del latino, e in questo senso è la lingua della cultura europea” (p. 24). Nella nuova prospettiva, che – forse con un po’ di sorpresa per qualcuno e un po’ di scorno per altri – vede il latino trasformarsi nella lingua di cultura del Medioevo e dell’Età moderna, non meno che della Roma classica, un momento centrale è rappresentato dall’epoca carolingia, quando il latino internazionale diventa veramente una seconda lingua viva accanto alle altre lingue vive che si vanno sviluppando in Occidente. “Spesso si ritiene che il latino medievale svolgesse una funzione simile a quella dell’inglese di oggi, ma la situazione è in realtà ben diversa. La grande differenza rispetto all’inglese “internazionale” di oggi sta proprio nel fatto che il latino dopo Alcuino non è la prima lingua di nessuno, ed è dunque una lingua internazionale egualitaria, mentre l’inglese di oggi è la prima lingua di inglesi, americani ecc. […]. È questa lingua internazionale egualitaria che ha permesso la costruzione della cultura europea” (p. 64). In questo senso si può arrivare addirittura ad affermare che il vero latino europeo sia soprattutto quello di Carlo Magno, piuttosto che quello di Cesare.
Lo sviluppo di una nuova forma di scrittura, la carolina, va di pari passo con l’affermazione del latino quale lingua internazionale della cultura – ma anche della liturgia. E al rapporto tra latino, Chiesa cattolica e liturgia Milanese dedica pagine molto dense.
Solo con l’Umanesimo, tra i secoli XV e XVI, con l’atteggiamento di disprezzo per i secoli dell’età di mezzo tipico degli intellettuali di allora e l’artificioso ritorno allo stile ciceroniano, il latino vivo e duttile del Medioevo viene trasformato per la prima volta nella sua storia in una vera lingua morta.
Per concludere, quali sono le vere “ragioni” del latino? Se si accetta di fare piazza pulita di certi luoghi comuni ormai privi di ragion d’essere; se si libera il latino dal soffocante abbraccio del greco; se si accetta di riconoscere nel latino la lingua di duemila anni di civiltà europea (e non della sola classicità), allora davvero esso diventa “una forza potente di consapevolezza e di liberazione culturale” (p. 133). In tempi come i nostri, di rinnegamento delle radici culturali europee e rimozione del passato, di cancel culture e “maschi bianchi morti”, scrive Milanese in apertura del suo libro, “I tesori della nostra cultura sono sempre più profondamente nascosti, sottratti alla vista delle folle, come gli antichi tesori sepolti del racconto del Beowulf. Combattere perché l’abisso della non-memoria, il gorgo dell’oblio, non divori la trasmissione della nostra cultura, rendendo impossibile qualunque autocoscienza culturale, è dignum et iustum” (p. IV).
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