Attimi e scelte. Un binomio inevitabile per l’esistenza umana, momenti fondativi della nostra formazione e del nostro rapporto col mondo. Fanno parte della nostra natura, perché conciliano il momento riflessivo dell’introversione, del porsi di fronte all’accadimento della realtà, con quello impulsivo dell’azione. Non è forse vero, come diversi adagi più o meno popolari non mancano di ricordare, che siamo il frutto delle nostre scelte? E, a loro volta, cosa sono le scelte se non il frutto di attimi? Tutto lineare, sembrerebbe, anche perché non ci è possibile astrarci dalla nostra capacità di scegliere, che siamo chiamati ad esercitare quotidianamente. Ma cosa succede quando le scelte ci vengono imposte? Come reagire quando qualcuno tenta di minare il nostro diritto ad essere padroni del nostro destino?



La letteratura, che si diletta nell’indicare una via reale con metodi fittizi, ha provato a darci una risposta. Per coglierla, dobbiamo trasferirci nel fantastico universo letterario di Italo Calvino, in particolare su quella scomoda quanto insolita sede dove uno dei suoi personaggi più iconici, il settecentesco barone Cosimo Piovasco di Rondò, ha deciso di trascorrere quasi la totalità della sua vita.



Era il 1957 quando Il barone rampante veniva dato alle stampe. Una sorta di favola, di Pinocchio contemporaneo, verrebbe da pensare ad una lettura affrettata. Come giudicare, d’altronde, se non con i crismi della pazzia da cartone animato, la parabola esistenziale di un ragazzino che, protestando contro i genitori per via di un poco gradito piatto di lumache (ma anche per via di un’etichetta nobiliare troppo rigida), si inerpica tra tronchi e liane per non toccare più terra fino al giorno della sua morte? Certamente, ad un primo livello di lettura, la vicenda di Cosimo non può che strappare un sorriso divertito o una smorfia di incredulità, considerando l’unicità del personaggio nel panorama letterario di tutti i tempi. Ma basta immergersi con più pazienza e ansia di scoperta tra le pagine di questo enigmatico romanzo per carpirne una verità ben più magmatica e sfaccettata. Perché nonostante la lontananza spaziale che Cosimo sembra patire rispetto al canonico movimento del mondo, egli finisce per condurre una vita assolutamente normale e densa di avvenimenti: dall’amore per Viola alla progressiva costruzione di un vero e proprio alloggio tra le fronde, dalla fervida attività intellettuale condita dal dialogo con i grandi della sua epoca (da Voltaire a Napoleone) ai drammi e alle piccole gioie di ogni uomo. 



Non c’è un momento, insomma, in cui Cosimo, autorelegatosi in una condizione apparentemente marginale, non sia attivamente partecipe delle sorti del suo microcosmo di relazioni e del mondo intero che lo circonda. Basti vedere il significativo episodio dell’incontro con Gian dei Brughi, bandito incallito – che proprio dall’alto degli alberi si dilettava in razzie e funamboliche fughe – che imparerà da Cosimo l’amore per la lettura, fino ad instaurare con lui un vero e proprio rapporto di scambio libresco. E proprio grazie a questa passione Gian abbandonerà ogni proposito criminale, fino a perdere del tutto la voglia di scappare dalle proprie malefatte. Verrà giustiziato dalle autorità, ma non prima di aver chiesto a Cosimo il finale dell’ultimo romanzo che aveva intrapreso. Segno evidente di una mutata condizione di spirito, che lo conduce con più serenità al pentimento e alla morte.

Una vera rivoluzione è quella innescata dal giovane barone: una via nuova, inedita, mai praticata. In fondo, cos’è una rivoluzione se non un’illuminazione? Un vedere in anticipo ciò che altri fanno fatica persino a pensare? A volte, è il messaggio che forte e chiaro ci lancia Cosimo, non si può fare altrimenti: bisogna lasciarsi alle spalle le idee che altri hanno prospettato come ideali per noi e bisogna andare a caccia della propria verità. A volte servirà uno sguardo obliquo, decentrato, incomprensibile secondo le categorie dei più: ma sarà quella la chiave per una vita autentica, che non cada nella mortifera monotonia che Heidegger definiva “deiezione”. E non è un caso che sul finire romanzo, Calvino, con uno spunto metaletterario, paragoni i rami degli alberi ai sinuosi ghirigori prodotti dalla penna dello scrittore: come un personaggio della finzione, a volte è nostro dovere sconvolgere la realtà, sovvertirne i meccanismi, dimostrarne la fallacia e l’ipocrisia. Come fa lo scrittore, appunto. E pazienza se passeremo per pazzi: non vale forse la pena, anche fosse uno solo ad essere toccato dal nostro impeto, mostrare che c’è sempre un’alternativa possibile?

A volte, per farlo, basta davvero poco: basta raggiungere la cima di un albero, saltare come lo Zaccheo del Vangelo di Luca su un alto sicomoro, sporgersi e guardare di sotto. Una nuova prospettiva è lì a portata di mano, pronta ad insegnarci che non è mai troppo tardi per fare la differenza. Per noi e per gli altri. Che basta un attimo. E una scelta.